Una delle pratiche rituali più diffuse era la costruzione di una o più pire di legna, paglia e foglie secche che venivano bruciate la sera del martedì grasso oppure la prima domenica di Quaresima.
Come è noto, la pratica di accendere falò non è propria solo del tempo di carnevale. Il mondo contadino illuminava le tenebre notturne in svariati altri momenti calendariali: il 17 gennaio, Sant’Antonio Abate, alle calende di marzo, per San Giuseppe (19 marzo), San Giovanni (24 giugno) e poi, a livello locale, anche in altri periodi dell’anno, in particolar modo in occasione delle feste patronali.
In diversi momenti calendariali ed occasioni rituali, il falò imponeva il suo potente simbolismo a proposito del quale gli studiosi hanno elaborato interpretazioni riconducibili, secondo James George Frazer, a due concetti fondamentali: la purificazione dagli influssi malefici naturali e sovrannaturali, e il rinnovamento preannunziante la stagione a venire, l’accrescersi delle ore di luce, e quindi l’aiuto che i bagliori del falò offrirebbero al sole al termine del suo declino verso il solstizio d’inverno, secondo principi di magia simpatica o imitativa.
Nel caso dei falò carnevaleschi (e non solo) è tuttavia sempre presente anche il tema “sacrificale”, giacché la pira rappresenta sempre il “carnevale” inteso come “persona simbolica”, assumendo in sé la funzione altrove e diffusamente rivestita da pupazzi ed effigi di vario tipo, invece assai rari nei carnevali delle Quattro Province.
Queste interpretazioni di carattere simbolico, che da Mannhardt e Frazer sappiamo presenti nella psicologia profonda delle genti contadine di tutta Europa, non devono tuttavia far passare in secondo piano quel contesto complesso di azioni e situazioni collettive che vanno a conferire senso all’atto particolare dell’innalzamento e dell’accensione dei falò rituali.
A Pej si bruciavano in competizione tre falò, uno per ogni frazione del paese, la prima domenica di Quaresima, come in uso in val Boreca e nelle valli del piacentino. I pali “vestiti” di fascine e ginestre ardevano per Codeviglio in località La ciapà, per La Torre sul Custiò de La Torre, per Pej in località Tanon.
Sempre in val Boreca, a Belnome – secondo quanto riferito da Michele Ravera dalla testimonianza di Lidia e Andrea Canotti —, sì erigeva in località i Carpenèli, a monte del cimitero, la fojà, un “campanile” alto cinque o sei metri, che consisteva di un palo centrale affondato nel terreno attorno al quale venivano accatastate legna e fascine dì ginepro. Infine, in cima alla fojà, veniva posta l’effigie di un gatto, anch’essa costruita con rami di ginepro. Il fuoco durava molte ore e tutti i bambini in piazza giravano col pajò, una pertica di legno ricoperta e avvolta di paglia in fiamme.
Il falò di carnevale bruciava anche a Bogli, la prima domenica di Quaresima, usurpandone anche il nome che diventava la “domenica de la fujà”. I suoi bagliori scioglievano il gelo delle tenebre invernali a gara con quelli della fujà di Suzzi. Al fujasso (fogliame secco) e ai ginepri che profumavano l’aria si aggiungevano fascine di ceci.
A Suzzi la fujà veniva costruita in un luogo sovrastante il paese chiamato i Nusain. La filastrocca che accompagnava il “sacrificio” del carnevale esprime, in mirabile sintesi, i temi più significativi del rito carnevalesco, ovvero la follia, la cattura di una vittima sacrificale, il sacrificio rituale, la fuga che preannuncia il suo ciclico ritorno:
Carlevà l’è n’omu matu / L’emù missu ndrentu du u sacu / U sacu l’è bruzó / E Carlevà l’è scapò. (Giuseppe Toscanini Pinin).
A Bogli faceva la sua comparsa ìl “carnevale come pupazzo”, tipologia diffusissima ovunque, ma assai rara nel territorio delle Quattro Province.
Il trattamento riservato all’effìgie antropomorfa era in tutto simile a quello riscontrabile in numerosi altri carnevali arcaici, come quello, ancora in funzione, di Schignano
nella comasca val d’Intelvì. La filastrocca non è molto lusighiera per i vicini-rivali del paese di Suzzi, ai quali viene attribuita addirittura una natura “diabolica”, il che, assunto all’interno della logica carnevalesca, suona però piuttosto come una dichiarazione di correità.
A Bogli si cantava una seconda filastrocca nel mentre bruciava “il carnevale”, indicativa dì come il fuoco carnevalesco, con la sua ben nota funzione sacrificale, agisse anche nel definire i margini della comunità. Nella seguente filastrocca sembra ravvisarsi l’atto di espulsione rituale al dì fuori dei confini comunitari, pur all’interno della logica carnevalesca che rifugge codificazioni letterali stabili e tende piuttosto a contraddire se stessa attraverso le forme del paradosso.
Carluvà u va e u vegna / U va inti pian de Cartasegna / U va inti pian de la Lumbardìa / E u diavul se u porta via. (Maria Negro)
Il fantoccio personificazione del carnevale era presente anche in val Trebbia, a Casoni, frazione di Fontanigorda, secondo quanto riferisce Guido Ferretti. I due fantocci, uno per rione, erano costruiti nella mattina della domenica grassa dai ragazzi aiutati da qualche anziano.
Alti circa tre metri, avevano le braccia aperte e la faccia mascherata e portavano al collo una collana composta dei gusci delle uova utilizzate per fare i ravioli. In testa portavano un rozzo cappellaccio.
Naturalmente si gareggiava a che l’uno fosse più alto dell’altro. Custoditi con ogni cautela nel corso della notte, i fantocci venivano portati in giro per il paese fino alla sera del martedì grasso e l’incontro dei due gruppi di “portatori del carnevale” sfociava sovente in risse per sedare le quali era necessario l’intervento degli adulti. La sera del martedì i fantocci venivano trasportati in posizione orizzontale, come già morti, e bruciati contemporaneamente a quelli dei vicini paesi di Vallescura e Barcaggio. Il toponimo Briccu de Carlevà ricorda ancora l’antica tradizione.
Come a Suzzi e a Bogli, anche nell’area ottonese, secondo quanto riporta Enrico Mandelli, i falò bruciavano la prima domenica di Quaresima.
nica di Quaresima per favorire il protrarsi della festa fino a notte tarda. Il lavoro di costruzione della struttura destinata ad ardere alle prime tenebre ha inizio fin dal mattino e richiede fatica e ingegno.
I falò rituali della prima domenica dì Quaresima bruciavano, e in rari casi sono ancora accesi, anche nelle frazioni della val Nure, dove ritroviamo quella dinamica conflittuale che va considerata non tanto elemento di disturbo o infrazione della pratica rituale, ma componente essenziale, del rito stesso. Era un atto che conferiva senso di conferma comunitaria alle singole frazioni, coese nella difesa della propria opera rituale e nell’azione d’attacco a quelle rivali; ma anche, attraverso la competizione e il conflitto, agiva da rinforzo dei legami che univano le diverse frazioni: legami conflittuali, ma pur sempre identificanti rispetto ad un mondo esterno “neutro”, o con il quale vi sono istanze relazionali, positive o negative, ma comunque d’ordine e grado inferiore rispetto a quelle che agiscono all’interno della comunità e delle sue frazioni.
A Colla di Brugneto, la cassinella è oggi anticipata al sabato precedente la prima domenica di Quaresima per favorire il protrarsi della festa fino a notte tarda. Il lavoro di costruzione della struttura destinata ad ardere alle prime tenebre ha inizio fin dal mattino e richiede fatica e ingegno.
Viene innalzato un tronco di sette o otto metri di altezza confitto in un apposito buco nel terreno. In cima al tronco è fissato un ramo di ginepro.
Il palo viene assicurato con corde ben tese a pioli piantati nel terreno. Attorno ad esso si costruisce una struttura quadrata che serve da base su cui verranno impilate le ramaglie di ginepro e le balle dì paglia. Lo scopo è tenere la catasta sollevata da terra in modo che sia sempre arieggiata alla base. La catasta è “attualizzata” dall’aggiunta di alcuni vecchi copertoni.
A tenebre fatte, si accende la pira, utilizzando il piccolo fuoco acceso fin dal mattino accanto alla cassinella, secondo una pratica già osservata da Mandelli.
L’incendio è accompagnato da spari in aria e dal suono della tradizionale conchiglia dì mare, diffusissima nelle valli delle Quattro Province. La conchiglia, usualmente denominata “corno” (per affinità con il corno di becco utilizzato nella stessa funzione), era un tempo utilizzata come segnale per radunare le pecore, o richiamare gli uomini alle riunioni e ai lavori collettivi, o anche per segnalare un pericolo.
Il falò di ginepri e fujassi, costruito intorno ad un albero tagliato e confìtto in terra, ardeva anche ad Alpe di Gorreto, in val Terenzone, il martedì grasso, come pure, nella stessa data, al di là delle dorsali del Chiappo e del Cavalmurone, a Cosola, nell’alessandrina val Borbera. Qui la costruzione dei falò era al centro di un laborioso lavoro che impegnava separatamente i giovani delle tre frazioni del paese: i Ari, Pianà e Zù per la villa. Come a Zerba, ognuna delle frazioni erigeva la propria perga in aperta rivalità e competizione con le altre, e non mancavano i tentativi dì distruggere anzitempo la pira dei rivali.
Le perghe dovevano bruciare prima della mezzanotte del martedì grasso, che segnava l’inizio della Quaresima ed ogni frazione cercava di fare in modo che il proprio falò fosse l’ultimo a bruciare. La durata del fuoco dipendeva sia dalle dimensioni che dalla perizia con cui era costruito.
La perga bruciava mentre i ragazzini cantavano la filastrocca che sanciva la “morte sacrificale” del carnevale: ” Carluvà l’è in pé l’è in pe / L’è vestì da bersaglié / Ma l capè u l’a cavò / Carluvà l’è bel andò “.
Ivo Burrone di Cosola ci riferisce della costruzione dì tre falò, il primo dei quali veniva acceso al suonare dell’Ave Maria, il secondo intorno alle undici e il terzo alla mezzanotte del martedì grasso.
A Daglio, borgo valborberino alle pendici del monte Porreio, si accendevano due falò la notte del martedì grasso, anche questa volta riflettendo la divisione e rivalità fra le due partì del paese. Anche in questo caso una filastrocca rituale accompagnava l’incendio del falò, sottolineando la funzione “sacrificale” del rogo sul quale bruciava simbolicamente ìl carnevale.
Nella vicina Cartasegna, fino agli anni Sessanta la fujà veniva bruciata la sera del martedì grasso in località Piazu.
Ancora in val Borbera, due falò ardevano al Connio e a Carrega, quest’ultimo ìn località Ciapà, in luoghi ben elevati al di sopra del paese. L’uso di erigere falò nella valle del Carreghìno sembra sia perdurato fino agli anni Cinquanta, ultimamente ad opera di ragazzini, mentre in tempi più remoti erano gli adulti a farsene carico.
Il carnevale bruciava anche nella vicina valle dei Campassi, nel villaggio ora in rovina dì Reneusi, a Campassi e a Vegni, che lo erìgeva sulla costa perché fosse veduto da Daglio. Non mancava all’appuntamento con il rogo rituale neppure la minuscola Ferrazza i cui abitanti costruivano la pira in una località detta inta Ruetta lungo il sentiero per Reneusi, per poi ritrovarsi all’osteria a giocare a carte.
A Vegni, in particolare, il rogo carnevalesco era associato alla rivalità tra due famìglie storiche, i Rattaro e i Terragno, la prima insediatasi nella Villa della Chiesa, la seconda nella Villa superiore. A quest’ultimi pare fosse imposto di non attraversare il ruscello che divide le due frazioni. Gli insulti che i rappresentanti delle frazioni opposte si scambiavano la dice lunga sulla considerazione dei montanari nei confronti dì chi non apparteneva al mondo contadino, e sul senso identitario che derivava loro dalla comune appartenenza a quello stesso mondo.
A Berga, nella valle dell’Agnellasca, affluente di sinistra del Borbera, il falò gareggiava con quello acceso a San Clemente, e ì ragazzi accompagnavano il suo ardere con la filastrocca “Carluvà u va u va / Livra e done da vegià“, “Carnevale se ne va, libera le donne dalle veglie”, ovvero dalle abituali riunioni invernali nelle stalle o nelle case più riscaldate, che rappresentavano la meta dei corteggiamenti dei giovani. Con l’avvento della bella stagione, e il ritorno alla vita all’aperto, tutto sarebbe diventato, almeno in apparenza, un po’ più semplice.
L’uso di erigere falò e di dar loro fuoco era diffusissimo anche nell’alta val Staffora. A Negruzzo i ginepri venivano tagliati qualche giorno prima, quindi si alzavano tre o quattro pali di faggio che si riempivano di foglie, paglia, ginepri e ramaglie allestendo la pira destinata a rivaleggiare con i bagliori provenienti dal borgo di Cencerate, sull’opposto versante della valle. I ragazzi giravano per le case per la consueta questua di beni destinati a pagare i suonatori, seguendo il pifferaio accompagnato dalia musa e successivamente dalla fisarmonica. Come nel vicino paese di Casale Staffora, il falò bruciava al grido di “Carluvà la và la và / La Pasqua la véna“, non degnando di menzione l’interposto tempo quaresimale, austero ed ostile allo spirito festoso.
Anche nei paesi dell’alta e media val Curone è ricordata l’usanza di accendere falò in occasione del carnevale. A Salogni il falò ardeva in una piana detta la Ciapà, situata sulla via verso ìl monte Panà. Si diceva; “L’Epifania tute le feste li a porta via / El carluvà li a turnà a purtà / Via al carnuvà, sacocia sbarasà“, ovvero “L’Epifania tutte le feste le porta via/ Il carnevale le torna a riportare / Via il carnevale, tasche aperte”, oppure “Carneval pasà / Quaresima venuta / Sacocià sbarasà / L’amante l’ho perduta“, sottolineando, da un lato, l’immediato avvento del tempo carnevalesco al finire del ciclo natalizio, dall’altro la penuria quaresimale che faceva seguito alla momentanea abbondanza dei giorni di carnevale durante i quali si cucinavano ravioli in grandi quantità, ai quali veniva associata la funzione propiziatoria dì favorire l’avvento della bella stagione. Si diceva infatti che “il fumo dei ravioli fa andare via la neve”.
A Bruggi si bruciavano tre falò sul Custiò d Marsiàn, in posizione elevata sopra il paese e si accompagnava la combustione delle pire con il suono fragoroso dei campanacci (ciucon). Al suono profano dei campanacci faceva eco quello delle campane della chiesa che intorno alle 10,30-11.00 invitavano i fedeli a consumare i cibi grassi prima dell’ingresso nel tempo quaresimale. Il ballo però, animato dai pifferi di Giacomo Sala di Cegni, Giuseppe Domenichetti Pipén di Negruzzo e successivamente Ernesto Sala, si protraeva fino alla mezzanotte. Il carnevale tradizionale è stato festeggiato a Bruggi fino al dopoguerra, dal sabato grasso al martedì grasso.
Paolo Ferrari
(Brano tratto da “Chi nasce mulo bisogna che tira calci” di Paolo Ferrari, Claudio Gnoli, Zulema Negro, Fabio Paveto)
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