Il rastrellamento invernale.
“Tra la fine d’agosto e i primi di settembre del 1944 i favorevoli eventi della guerra avevano lasciato sperare in una fine imminente del conflitto. L ’offensiva alleata contro la «Linea Gotica» e lo sfondamento operato in più punti di questa, avevano anzi indotto i comandi partigiani a dar ordine ai reparti d’intensificare gli attacchi e a predisporre addirittura dei piani per l’azione insurrezionale finale. Le speranze rimasero invece purtroppo deluse quando ci si accorse che l’offensiva anglo-americana anziché essere risolutiva, si era andata esaurendo in una serie di attacchi di limitata portata territoriale e che la tanto attesa avanzata sarebbe stata procrastinata, rimandando tutto a primavera. A noi partigiani rimaneva quindi la terribile prospettiva di passare l’inverno in armi e la certezza che il nemico, favorito ora dalla stasi sul fronte meridionale, avrebbe scagliato contro di noi forze di gran lunga più considerevoli di quelle impiegate nei precedenti rastrellamenti estivi.
Il secondo proclama, col quale il gen. Alexander ci invitava a cessare le operazioni su vasta scala in attesa di eventi migliori, fu poi una doccia fredda che colse di sorpresa i nostri comandi, li indusse a cambiare i piani già predisposti e a provvedere in tutta fretta a quanto la nuova critica situazione andava invece richiedendo con urgenza.
Il tanto temuto rastrellamento ebbe inizio il giorno 23 novembre del 1944. Il nemico si servì di truppe mongole, composte da ex prigionieri di guerra catturati sul fronte dell’Ucraina e inquadrate da ufficiali e graduati tedeschi nella 64^ divisione «Turkestan». Si trattava di soldati abbrutiti dalla prigionia, cui ora il comando tedesco concedeva piena libertà d’azione, per spronarli al combattimento, il che, in una truppa priva di ogni base morale, doveva sfociare inevitabilmente nel furore più cieco, nella bramosia più famelica di preda e di stupro, facendo di essi dei novelli barbari ai quali nulla ormai più importava se non la distruzione e il massacro.
Il giorno 24 novembre la VII^ brigata veniva messa in allarme e nella notte stessa partiva da Bobbio in rinforzo alla VI brigata nel settore di Romagnese. Era assente il solo distaccamento di Barba 2° che trovavasi, come si è detto, a Monteventano in appoggio del distaccamento autonomo del comandante Muro e già schierato in quel settore che fu uno dei primi ad essere investito, pur con attacchi di carattere diversivo.
All’alba del giorno 25 gli alpini della VII^ si schieravano nella zona di Casella – Costalta, sul costone compreso tra il Tidone e l’abitato di Cicogni, in posizione nord-est avanzata rispetto a Romagnese, per bloccare l’invasione avversaria nella valle che da Romagnese stessa per Casa Matti sale al Passo Penice, e in quella ancor più angusta che da Pecorara confluisce a Vaccarezza di Bobbio. Alla sera dello stesso giorno 25 un dispaccio del capitano Giovanni recava l’ordine per la VII brigata di sgomberare la zona e di ripiegare su Bobbio, unitamente ai reparti della VI. La situazione era infatti apparsa delle più gravi, in quanto lo sfondamento era profondo e i partigiani erano ormai in rotta, una rotta disordinata e disastrosa, dinanzi a un nemico che appariva irresistibile, pronto a travolgere tutto col peso dei suoi battaglioni e col fuoco delle sue armi.
L ’ordine, tuttavia, non fu ascoltato da noi e mentre la VI brigata si apprestava ad arretrare e ad abbandonare la zona di Romagnese e quella del Penice, la VII^ solo si limitava a spostarsi più a destra nel settore di Cicogni-monte Crigno-monte Lazzaro, il più minacciato, per bloccare l’avanzata avversaria sulla strada per Bobbio.
L’alba del giorno 26, grigia per la fittissima nebbia che nascondeva ogni cosa, trovava gli alpini della VII^ brigata schierati a semicerchio da Praticchia a Cicogni e da Cicogni a monte Lazzaro.
Attendevamo il nemico in postazioni improvvisate nel corso della notte; ma il nemico indugiava, non avanzava e non si scopriva. Allora gli stessi alpini presero l’iniziativa e si spinsero avanti con la loro ala sinistra. Nelle prime ore del pomeriggio si effettuò finalmente il primo contatto coi nazi-mongoli il che avveniva per merito del distaccamento di Barba 1° che li attaccava con estrema decisione e riusciva a tenerli impegnati. Per sfruttare il successo ottenuto, la VII^ brigata insisteva ancora nella sua azione di attacco, ancora avanzava e occupava i centri abitati di Sevizzano e di Marzonago.
A sera erano ormai vicini alla stessa Pecorara in posizioni favorevoli per espugnarla. Coi partigiani Funnel e Ragaglia mi portai in pattuglia avanzata sotto le case per preparare l’attacco decisivo contro il nemico che si era arroccato nelle case. Qui però mi raggiungeva subito il maresciallo Mazzucco con un ordine perentorio di Fausto, che mi imponeva di ripiegare. Questa volta non potei più disubbidire, consapevole del resto di trovarmi ormai solo di fronte all’avversario e di non poter contare su aiuti di sorta. Il ripiegamento venne fatto di notte, con ordine e senza sbandamenti, per quanto la situazione si palesasse drammatica.
La VII^ brigata, giunta indenne a Vaccarezza, veniva subito schierata tra monte Pradegna-Boschini-Casa del Monte e il Passo Penice, dove stabiliva una nuova linea difensiva a nord e nord-ovest di Bobbio. Dopo le batoste subite il nemico però ancora indugiava a farsi sotto, cercava di prendere fiato e di organizzarsi, mentre attendeva rinforzi.
Questo accadeva al mattino del giorno 27, per cui, approfittando della stasi e della situazione apparentemente tranquilla, mi recai a Perino dove mi era stato riferito che si trovasse Fausto con altri comandanti. Ebbi da lui lietissime accoglienze e rallegramenti per il valore con cui si erano battuti gli alpini. A Fausto riferii sulla situazione del settore che mi era stato assegnato e mi rammaricai del fatto che le altre formazioni non avessero persistito a resistere.
C’era aria di disfatta, però, a Perino: un via vai di sbandati che i comandanti cercavano< d’inquadrare e di organizzare frettolosamente, mentre notizie disastrose si scambiavano nei discorsi, accrescendo l’ansia del momento e la triste fama dei rastrellatori. Fausto stesso era ammalato, scosso dai brividi della febbre, il volto segnato dal dolore che era comune a tutti, ma i suoi occhi conservavano la primitiva fierezza e la sua voce era ancora salda nell’esortare e ancora sapeva imporsi e impartire ordini con lucidità sorprendente. Mi fece molto piacere constatare tutto ciò, in mezzo al generale abbattimento.
Fausto, perciò, mi rinnovò l’ordine di sgomberare la zona del Penice a nord e nord-ovest di Bobbio, e di abbandonare la stessa città per unirmi alle altre formazioni sulla riva destra del Trebbia.
Tuttavia la VII^ brigata rimase ancora sul posto per tante ragioni: si attendeva infatti il rientro degli uomini di Barba 2°, che avevano combattuto nel settore di Monteventano, si voleva far ancora azione di freno per dar modo e tempo al grosso della divisione «G. L.» di trasferirsi con tutta sicurezza e senza molestie nella zona di Coli-Peli ed approntarvi i nuovi sistemi di difesa, ma soprattutto c’era il fatto morale che gli alpini non volevano mollare, in quanto sapevano di non essere ancora stati battuti. Si trattava — e perché nasconderlo? — di una questione di orgoglio e di prestigio, oltre che di puntiglio.
Nel pomeriggio del giorno 27 rientrava finalmente a Bobbio il tanto atteso distaccamento di Barba 2° e alla sera dello stesso giorno la VII brigata sgomberava la zona del Penice e ripiegava su Bobbio. Qui gli alpini sfilarono in assetto da combattimento dietro il tricolore sventolato da «Balilla» : non sembravano affatto uomini provati dalla lotta, passavano cantando e compatti nei loro ranghi. I civili non potevano credere ai propri occhi dinanzi ad uno spettacolo così inconsueto, che si dimostrava del tutto diverso da quello triste degli sbandati visto nei giorni innanzi. Il riapparire della VII^ brigata rincuorò e commosse un po’ tutti.
Alle prime ore del mattino del giorno 28 le prime pattuglie nazi-mongole, calando più da Cicogni che dal Passo Penice, facevano ingresso in Bobbio e ne prendevano possesso.
Ancora il vescovo, monsignor Bertoglio, si faceva incontro ai nemici per implorare clemenza, forte della sua autorità e del fatto che noi partigiani avevamo evacuato la città appunto per evitare di esporla ai lutti e alle rovine di una resistenza protratta all’interno delle sue mura. Il comando tedesco prendeva buon atto della accorata comunicazione e, contrariamente a quanto aveva fatto altrove, si asteneva dal compiere rappresaglie.
Con l’occupazione di Bobbio l’avversario veniva a completare l’occupazione di tutta la zona sino a Rivergaro, sulla riva sinistra del fiume Trebbia. Anche la statale N. 45, nel tratto compreso fra le due accennate località, nonostante i furiosi attacchi condotti da reparti della III brigata e dai partigiani di Muro, cadeva sotto il controllo nemico.”
Italo Londei
(Articolo tratto dal N° 5 del 10/02/2022)
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