Nel linguaggio corrente, si usano termini come «bandito», «fuorilegge», «brigante» come se fossero sinonimi. In realtà ognuna di queste espressioni nasce con un proprio significato specifico che va a coprire aree non esattamente coincidenti tra di loro: così il «bandito» è, a rigore, colui che è stato scacciato dalla comunità, il «fuorilegge» è colui che, messo al bando o no, vive, per costrizione o per scelta, al di fuori della legge, il «brigante» (termine derivante dal francese e introdotto in Italia proprio dai francesi per indicare spregiativamente i partecipanti alla resistenza meridionale favorevole ai Borboni) è infine quel particolare tipo di fuorilegge che si caratterizza per la propensione ad assumere atteggiamenti violenti (se ci pensate, mentre è facile pensare ad un «bandito gentiluomo», di «briganti gentiluomini» nessuno ha mai sentito parlare…).
Da approfondimenti rispetto al significato originale delle parole possono sortire anche delle sorprese. Così, mentre in prima battuta viene spontaneo associare il termine «bandito» alla parola «banda» (qualcuno si ricorda di Stanlio e Ollio? «Ohhhhh, Stenlio!! Una benda di benditi!!!»), i due termini, pur ricollegandosi entrambi all’azione di bandire, in realtà ne rispecchiano due aspetti contrapposti, collegandosi il primo al soggetto passivo di colui che subisce il bando e il secondo alla figura del banditore (con relativo accompagnamento di trombe e tamburi). Un’origine abbastanza caratteristica è ipotizzabile anche per un altro termine attiguo, oggi meno usuale: i «masnadieri» di schilleriana (e weberiana) memoria dovrebbero derivare il proprio nome dallo spagnolo «mas nada» (più nulla), ad indicare persone che non hanno più nulla da perdere tranne la vita.
Fatta questa prima, noiosa premessa, il quadro che intendiamo tratteggiare qui riguarda essenzialmente persone di briganti che tra il XIX e il XX secolo hanno operato (da sole o, più spesso, insieme ad altre) con grassazioni e violenze in quelle aree del territorio ligure che, per le difficoltà di accesso, erano più o meno sottratte alle possibilità di controllo dell’Autorità costituita. Tutto ciò a prescindere da una possibile connotazione «sociale» in stile Passator Cortese, che nasce da una visione romantica più vicina alla leggenda che alla realtà.
Una seconda premessa, forse un po’ meno noiosa, riguarda la connotazione dell’area ligure come possibile ambito di sviluppo del brigantaggio. Sotto questo profilo, se la configurazione geografica di terra di frontiera montagnosa e ricoperta da boschi e foreste costituiva un habitat favorevole, nel periodo medioevale la presenza di una forte città stato orientata al commercio internazionale aveva costituito elemento di forte contrasto ad un tale sviluppo, essendo il controllo delle vie di comunicazione circostanti fondamentale per l’economia della Superba.
Ciò non significa che attività di brigantaggio non fiorissero in Liguria, ma ciò avveniva assai più sul mare che sulla terraferma.
… Nel Maggio 1685, alcuni banditi mascherati (quattro o cinque, a seconda delle testimonianze) armati di archibugi assalirono presso Barbagelata un gruppo di mulattieri originari della Val Trebbia, in aiuto dei quali, dopo un primo scambio di colpi d’arma da fuoco, sopravvennero altri mulattieri piacentini che, come i primi, stavano tornando dal mercato del grano di Monleone. Sfortunatamente, un po’ per la concitazione e un po’ per l’oscurità della sera ormai incombente, uno dei soccorritori fu ferito dagli assaliti. Malgrado ciò l’inseguimento dei briganti, ormai in fuga a causa del numero preponderante degli avversari, che disponevano anche di cani da caccia, proseguì con discreto successo, tanto che alla fine due di loro furono catturati a Sbarbari, in Val d’Aveto, e riconosciuti come abitanti di Caorsi. Rinchiusi nel Castello di Santo Stefano, sotto la giurisdizione del Marchese Doria, furono condannati a cinque anni di esilio.
Avvicinandoci ai giorni nostri, incontriamo su un territorio confinante con la Val Trebbia, la Val Bisagno, una figura di brigante classico: Giuseppe «Pipin» Musso, detto «o Diao» (il Diavolo). Giovane contadino originario della Fontanabuona, vissuto tra fine settecento e primi anni dell’ottocento, il Diavolo guidava una banda che rapinava ed uccideva con brutalità, terrorizzando gli abitanti della valle. Uno dei punti d’incontro della banda era a Corte Lambruschini. All’apice della carriera, incuteva un tale timore che poté permettersi di guidare la processione della Madonna del Carmine, a Molassana, armato di tutto punto ma con una candela in mano. Altro aneddoto che lo riguarda si riferisce alla tutela legale per il proprio cognato, prigioniero e sottoposto a giudizio, da lui ottenuta promettendo all’Avv. Bartolomeo Mangini (poi divenuto noto come «l’Avvocato dei Briganti») di riservargli lo stesso trattamento che le Autorità avrebbero dedicato all’imputato. Il Mangini riuscì, in qualche modo, ad aver salva la vita del proprio indesiderato cliente, e ne ebbe in cambio che da allora, nello stesso punto dove aveva avuto il primo incontro col Diavolo, trovò sempre ad attenderlo una scorta che gli consentì di percorrere la strada fino a Fontanarossa, suo paese d’origine, senza alcun disturbo. Si era verso il 1805: anni di dominazione napoleonica. Il nostro brigante si pose al servizio degli inglesi e così, un po’ per la caccia che gli davano i francesi, un po’ perché la popolazione locale era stufa di sopportare i suoi soprusi, pensò bene di trasferirsi altrove. A Trieste, dove progettava di poter rilanciare la propria carriera, fu invece catturato in breve tempo e riportato a Genova, dove fu processato e condannato a morte. L’esecuzione, che affrontò coraggiosamente dopo aver voluto – malgrado il soprannome – i sacramenti, si tenne in Sant’Agata, vicino all’Oratorio delle Olivette, alle ore 11 del 19 Novembre 1805. Pipin Musso aveva allora 26 anni.
di Pier Guido Quartero e Amedeo Ronteuroli
(Estratto di articolo da Il Giornale del 24/12/2009)
(Immagine tratta da Meteo Marta)
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