Mulo e mulattiere. Un binomio antico segnato dalla fatica, dal silenzio rotto soltanto dal rumore degli zoccoli e dalle imprecazioni del conducente. Un mestiere che significava scomode notti trascorse sdraiati sui basti, lontananza da casa, solitudine. La giornata dedicata al trasporto dalla legna da ardere è raccontata, come si svolgeva un tempo, dal fotografo di Parma Roberto Pavio, attraverso le belle foto pubblicate dal blog “ValGotraBaganza” curato con attenzione da Alessandra Bassoni di Albareto e Pietro Zanzucchi di Berceto. Il mulattiere (“ U Müratè” in dialetto avetano) è diventato nei secoli una figura particolare, fondamentale per i trasporti. La Val d’Aveto era un incrocio obbligato per le carovane che arrivavano dal Piacentino o per quelle in arrivo dalla costa. Secondo la “Guida d’Italia del Touring Club Italiano” nel 1908 erano registrati in Liguria 13 mila cavalli, 9.757 asini, 12.116 muli e bardotti. A distanza di 111 anni sono rimasti in due i mulattieri, ma per brevi distanze. È il caso di Rinaldo De Martini, 67 anni, originario di Lorsica, residente a Sbarbari lungo la strada per la Scoglina e Barbagelata. «Ho iniziato l’attività all’età di 17 anni dove sono nato – racconta De Martini – e in Fontanabuona a quel tempo si lavorava con i muli in prevalenza per il trasporto del letame destinato a concimare i campi. Poi nel 1980 mi sono trasferito qui e per 22 anni ho allevato sei muli che venivano impegnati per il trasporto della legna. Ora nella stalla custodisco per passione ancora tre muli». Resiste ancora un mulattiere a Ertola. Si chiama Massimo Barattini ma anche per lui il lavoro è limitato. A poca distanza, a Casaleggio, ha smesso Abramo Barattini, detto “Bramin”, la cui figlia Maria Grazia era diventata una esperta mulattiera. Fino al 1936, anno di apertura della strada per Santo Stefano d’Aveto, il mulo era l’unico mezzo di trasporto. Una bestia possente che poteva arrivare a 40 anni di età, un ibrido dall’incrocio tra l’asino stallone e la cavalla, capace di portare sul basto fino a due quintali. A Santo Stefano d’Aveto le locande ospitavano i mulattieri. All’esterno delle case c’erano infissi gli anelli di ferro per legare gli animali. «Dal Piacentino – racconta Cristoforo Campomenosi, già sindaco del capoluogo dell’alta valle e appassionato cultore di storia locale, arrivavano grano e vino (in otri di pelle di capra) e in Emilia venivano trasportati sale e olio, e Ponte dell’Olio in val Nure, prende il nome da questo commercio. Uno di questi mulattieri, Lorenzo Biggio di Santo Stefano, morì colpito da un fulmine al passo del Bozale e una lapide nella cappelletta ricorda il fatto. Ci sono altri nomi nella storia dei mulattieri. Si tratta di Amedeo e Giuseppe “Pipetta” Pareti dei “Gabin”, i fratelli Mazzetti di Roncolongo “Bertellin”, Antonio e Lorenzo Fontana dei “Luigiun”, Evaristo Marrè dei “Varisti”, Olivo Pareti “Ghandi” dei “Pinagge”, Enrico Barattini e fratelli di Ascona, Pietro Tosi “Nicola” di Gavadi e suo figlio Battista “Pino”, Luisito Focacci di Amborzasco». Ma l’elenco non si ferma qui. «Ci sono tanti nomi di un tempo, ricorda Graziano Fontana autore di pubblicazioni di storia locale. Ricordo Emilio di Farfanosa, Ovidio di Casaleggio, Ettore di Montegrosso, Renato Ferretti di Salto che fece anche l’oste lungo il Penice, sopra Bobbio».
Fabio Guidoni da Il Secolo XIX
(Articolo tratto dal N° 36 del 31/10/2019 del settimanale “La Trebbia”)
(Fotografia di Roberto Pavio)
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