E’ una storia che ci riporta indietro di un secolo e mezzo e forse più quella che Claudio Gnoli, coadiuvato da Paolo Ferrari e Daniele Vitali, ha scoperto e raccontato. Riguarda un personaggio quasi leggendario il cui nome (o meglio, il soprannome) ricorre in una canzone che descrive il suo viaggio attraverso la val Trebbia: il Draghin, originario di Suzzi, in val Boreca.
Siamo alla metà dell’Ottocento e il piffero è lo strumento principe delle feste paesane. Il Draghin, che è il più antico suonatore di piffero del territorio delle Quattro Province di cui si conosca il nome, va a suonare a Cicagna, in Fontanabuona. Forse era la festa della Madonna dei Miracoli, oppure quella patronale di San Giovanni Battista. Non lo sappiamo, ma sappiamo però che in quella occasione i gendarmi lo tengono d’occhio, lasciano che la festa finisca e quindi lo ammanettano. Non era infatti uno stinco di santo. Tutt’altro. Sulla sua coscienza pesava nientemeno il fondato sospetto che avesse ucciso le sue prime tre mogli e di sicuro un pifferaio di Propata suo rivale. Fino ad allora era riuscito a farla franca ma a Cicagna viene tratto in arresto. La prigione di destinazione non poteva essere, per via del paese di nascita e dei delitti commessi, che quella di Bobbio; ed è proprio l’itinerario compiuto attraverso le montagne e la vallata del Trebbia il canovaccio della ballata che ce ne ha tramandato la memoria. Fève curaggiu bèllu Draghin — perché l’è questu u vostro destin. Inizia così, quandu l’è partiu da Cicagna, il racconto del lungo viaggio su per l’Acquapendente e poi a Barbagelata, Costafinale e Montebruno. In questo grosso borgo della val Trebbia, posto all’incrocio della strada che porta all’Oltrepò pavese con quella che da Genova conduce a Piacenza, i gendarmi e il loro prigioniero fanno sosta e infatti la canzone dice che quande l’è arìvòu a Muntebrun — u poveru Draghin u ghe n’à fattu ancun un. Ha ancora fatto, cioè, un “pezzo”, una suonata con il suo strumento, forse per cercare di attirare gente, di distrarre i suoi “angeli custodi” e di trovare l’occasione per svignarsela. Ma invece il viaggio riprende. Non c’era ancora la carrozzabile ma l’antica storica “strada di Genova”. Si prosegue per le Ripe di Guè (le ripe dei guadi, attualmente i Due Ponti) e quindi per Loco e Rovegno. e giù giù per Garbarino. Toveraia. Croce. Ottone e poi per le rampe di Losso e Traschio fino a Ponte Organasco.
Per questo tratto la canzone si sofferma sull’incontro, a quei tempi non insolito, che il Draghin ebbe un giorno con un branco di lupi mentre da Susi stava valicando il monte Alfeo per scendere in val Trebbia. Quando l’è stòu au munte Arfé— u pòviu Draghin u g ‘aiva i luvi aì pe. Ma come se l’è cavata in un frangente del genere? Semplicemente salendo su un faggio e mettendosi a suonare il piffero. I lupi, chissà se ammansiti o forse infastiditi, si allontanarono e il Draghin, sceso dall’albero, potè continuare il cammino.
A Ponte Organasco. dove si deve oltrepassare il fiume e salire alla Pieve di Montarsolo per proseguire verso Carana e Bobbio, la gente che lo conosce lo consola: “Féive curaggiu bèllu Draghin – perché quèstu chi l’è u vostro destin“. Ma giunto all’antica pieve, dove forse si sono dovuti fermare per rifocillarsi, au poveru Draghin – continua la ballata – ghe manchéiva u co. — U ghe manchéiva pròpriu in da bun —perché l éa adaré a andò in presciun.
Più avanti, nella piana di Carana, incontra una donna che lo conosce, e anch’essa non manca di rincuorarlo. Féive curaggiu bèllu Draghin —perché l’è quèstu chi u vostru destin. E finalmente giunge a Bobbio, dove per lui stanno per aprirsi le porte della prigione. All’arrivo in città gli mancano le forze, non riesce a proseguire. Più che parole di conforto in questo caso occorre un aiuto concreto. E cosa c’è di meglio di un bicere de vin bon -per farsi coraggio e andà a la prisòn?. La canzone però non finisce così. C’è un accenno a Milano, dove il Draghin andava a suonare in occasione del Carnevale. Un accenno che è una speranza: A Milan mi g’anderia -g’anderia cun u pinfru in man —pe purtà legria ai siuri de Milan. E, a quanto si racconta per memoria tramandata, a Milano ci andò davvero, e dopo non molti giorni di prigione, perché gli organizzatori del grande carnevale, venuti a conoscenza di quanto gli era capitato, corsero a Bobbio, pagarono un riscatto e lo rimisero in libertà. “Dopo averlo salvato dai lupi —conclude Claudio Gnoli, cui va il merito di averne scoperto la storia – il suo piffero gli aveva fatto scampare anche la prigione”.
Renato Lagomarsino
(Articolo tratto dal N° 3 del 26/01/2017 del settimanale “La Trebbia)
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