A quarant’anni dal clamoroso esordio nel 1980 è tornato “Il nome della rosa” di Umberto Eco, in una nuova edizione per i tipi La Nave di Teseo, accompagnata dai disegni e dagli appunti originali dell’autore.
Schizzi e schemi che testimoniano il lungo lavoro di preparazione di un libro profondamente intriso della filosofia medievale e dove si ricostruisce la vita di quel microcosmo di spiritualità, attività culturali e manuali che erano le abbazie benedettine.
Nella nota al volume, Mario Andreose evidenzia come non a caso il romanzo abbia goduto di fortuna critica presso non solo i maggiori letterati, ma anche i più esperti medievalisti, come Jacques Le Goff, George Duby e Franco Cardini. Tradotto in 60 Paesi, con oltre 50 milioni di copie vendute, il libro di Eco ha portato nel mondo anche il nome della città di Bobbio, il cui cenobio fondato da San Colombano è rievocato espressamente nelle pagine, ma soprattutto aleggia nella celebrazione dell’importante lascito giunto fino a noi grazie al paziente lavoro degli amanuensi, traghettatori dei classici attraverso la pratica della copia. Allo scriptorium del monastero di Bobbio viene unanimemente riconosciuto il salvataggio di testi della letteratura latina che altrimenti sarebbero andati perduti per sempre. “Il nome della rosa”, che si svolge come un avvincente giallo, con tanto di sagace investigatore – il frate francescano Guglielmo da Baskerville e il suo assistente, il giovane benedettino Adso da Melk, io narrante – e di una scia di delitti nelle mura di un’austera abbazia, è ambientato nel 1327.
L’aspetto esterno dell’edificio sembra modellato sulla Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte, la regione dello scrittore, nato ad Alessandria nel 1932 e morto a Milano nel 2016. Nella finzione, l’interno del complesso architettonico custodisce una biblioteca favolosa quelli di Bobbio o di Pomposa, di Cluny o di Fleury sembrano la stanza di un fanciullo che appena si inizi all’abaco” constata Guglielmo, che sicuramente nel racconto raggiunge in più occasioni la località della Valtrebbia.
Al cospetto dell’anziano Ubertino da Casale, rifugiatosi nella stessa misteriosa abbazia dove si recano i due protagonisti, Guglielmo dice che si trovava a Bobbio quando gli era arrivata la notizia che il teologo dei francescani spirituali e suo amico aveva ottenuto l’ospitalità nel monastero arroccato sul monte. E nell’epilogo, a indagine risolta, è ancora Bobbio che compare quale nuova tappa del viaggio di Guglielmo e Adso, mentre altrettanto significativamente un importante bibliotecario nella vicenda viene battezzato da Eco quale Roberto da Bobbio.
(Articolo tratto dal N° 21 del 18/06/2020 del settimanale “La Trebbia”)
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