Genny era giunto da Milano, dove fino allora aveva combattuto nei GAP. e ora insisteva per far parte di un distaccamento ma quando scoprimmo che era mutilato (un perfetto arto meccanico non lasciava sospettare che la gamba fosse amputata sotto il ginocchio) lo convincemmo che la vita nei distaccamenti, a doversi continuamente spostare per cammini impervi, era ben altra della lotta in città, sicché avrebbe potuto rendersi ugualmente utile lavorando in un ufficio.
Fu così che si stabilì in una locanda nella vicinanze di Marsaglia dov’era la redazione del «Partigiano», un piccolo foglio che in quel triste inverno, quando i proclami di Alexander ci invitavano a interrompere l’attività, serviva a rinsaldare lo spirito dei nostri combattenti.
Ora, poco prima di Natale, i tedeschi sferrarono il famoso rastrellamento dei mongoli, con divisioni composte di prigionieri di guerra abbruttiti da anni di «lager», e alcolizzati per potersene servire nella loro spietata repressione.
Abbiamo già parlato del maggiore tedesco, quando venne a parlamentare accompagnato da un ufficiale fascista che fungeva da interprete; e così eravamo tutti a conoscenza delle malefatte — incendi, ruberie, e soprattutto stupri — che quei disgraziati avevano compiuto in Valdossola. Sicché, non avendo consegnato le armi, già si sapeva a cosa saremmo andati incontro: e difatti fu una lotta tremenda e inumana, per monti coperti di neve, per valli, canaloni ghiacciati, cercando di sganciarci per poi attaccare, senza mai dare e avere tregua, fintanto che, verso la fine di gennaio, fu la volta dei tedeschi a cercare scampo in pochi capisaldi protetti da campi minati, e lì a starsene asserragliati fino alla resa. Naturalmente nei primi giorni, dov’erano arrivati avevano fatto uno scempio, e le popolazioni, specie le donne, scappavano a rifugiarsi in caverne, in pagliai, al freddo e alla fame, pur di sottrarsi alle loro violenze; ma a Marsaglia nessuno s’aspettava che arrivassero tanto presto, e così quando un loro pattuglione irruppe nella locanda dov’era alloggiato Genny sorprese tutti mentre stavano preparandosi a fuggire
Rinchiuse le donne in una stanza, afferrarono Genny e gli ordinarono da mangiare e naturalmente da bere; e il poveretto, per tema di peggio, si dava un gran daffare a portare in tavola tutto quel che c’era in dispensa, e a stappare bottiglie di vino e di grappa in quantità. E mentre li serviva e quelli facevano bisboccia, uno di loro che biascicava un po’ la nostra lingua, cominciò a chiedergli dei partigiani, e se ne avesse visto da quelle parti, ma dal modo come gli aveva rivolto la domanda, dalla preoccupazione che tutti tradivano coll’avvicendarsi continuamente sulla porta e spiare la strada, Genny aveva compreso che non si sentivano sicuri; sicché con fare circospetto come se tradisse un gran segreto, e qualcuno potesse ascoltarlo, ammise che di partigiani da quelle parti ce n’erano tanti e tantissimi. E intanto continuava a riempire i bicchieri con quella sua miscela infernale, fatta di vino e grappa, e quelli a tracannarla d’un fiato, forse per darsi coraggio; e ora tutti cercavano di afferrare quel che diceva quando, accostatosi alla finestra, indicava le montagne coperte di neve; «Lassù ve ne sono… e poi lassù anche… e ancora lassù, tantissimi… e quando scendono non ci resta che scappare…». E quelli a ripetere in coro; «Lazzù… angola lazzù…» e con vocette stridule, in grande agitazione, discutevano.
Finché l’interprete non gli chiese se fossero armati e come potessero vivere su quei cocuzzoli gelati senza un rifugio nè un villaggio dove rifornirsi; e allora Genny, abbassando la voce e come se si fosse deciso a svelare tutto il mistero:
«Che gli servirebbero le armi? Non sono uomini quelli che vivono lassù, ma diavoli in carne e ossa: vi dico che sono creature innaturali, come l’uomo delle nevi che non soffre il gelo né la fame, né il fuoco… sono diavoli, ecco quel che sono», e cosi dicendo portava la mano sulla fronte facendo corna.
Mentre quel mammalucco andava traducendo, Genny attizzava il fuoco nel caminetto, e intanto sbirciava l’effetto delle sue panzane su quelli già ubriachi; e pur non riuscendo a capire un’acca del loro cicaleccio, dal modo come lo fissavano con occhi spiritati era evidente che per effetto della paura, ma principalmente per tutta quella miscela di vino e grappa che avevano ingurgitato, stavano per perdere il controllo. Si trattava dunque di trarre il massimo vantaggio da quella situazione tragicomica.
Ed ecco che improvvisamente afferra uno sgabello, si siede davanti al caminetto e, accavallate le gambe, distrattamente allunga il piede mutilato sulla brace, borbottando: «Non v’è dubbio che né il gelo e nemmeno il fuoco fanno paura a quei dannati… anch’io come vedete, sono dei loro…». Ora tutti erano balzati in piedi come molle, fissando con occhi sbarrati la scarpa che stava sprigionando un fumo acre, mentre Genny, come se non si fosse accorto di nulla, si rivolgeva al traduttore: «Domanda come faranno a combatterci…». Improvvisamente, quando le fiamme avvolsero il piede e lo resero incandescente, s’udì un urlo di raccapriccio e in grande confusione, sospingendosi e urtandosi, si precipitarono tutti alla porta.
A Genny non rimase che immergere il suo arto carbonizzato in un secchio d’acqua, eppoi correre zoppicando a liberare quelle povere donne, più morte che vive.
(Brano tratto da “La Repubblica di Torriglia” di Marzo – Di Stefano editore)
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