Prima di chiudere questi ricordi di fatti accaduti nella Repubblica di Torriglia durante la lotta di Liberazione voglio raccontare un ultimo episodio, quello di Loco, nella valle del Trebbia: non perché sia un fatto d’armi di grande rilievo, ma per le ripercussioni ch’ebbe sulle popolazioni della vallata e soprattutto sul morale già scosso delle truppe tedesche che occupavano Genova.
A Torriglia, dopo che gli alpini del «Vestone» erano passati alla Cichero, era rimasto solo il presidio tedesco: un centinaio di uomini che durante la notte si asserragliavano nell’asilo, e tutt’intorno avevano minato il giardino, fino alla strada. Soltanto così si sentivano al sicuro dai colpi di mano, e anche di giorno si guardavano bene dall’avventurarsi nella valle del Trebbia; là infatti c’erano le nostre forze, e appena fuori della galleria che unisce le due valli, la val Polcevera e quella del Trebbia, nostre pattuglie controllavano la strada con il compito di segnalare al Comando le mosse del nemico. Il grosso delle formazioni della brigata Jori, s’era assestato nelle borgate che sovrastano la strada: a Casanova, a Barbagelata, ad Alpe, a Foppiano. La strada che segue il corso del fiume, è un budello tra montagne fitte di boschi ed era così praticamente in mano nostra fino quasi a Bobbio, nel piacentino, dov’era l’altro presidio tedesco: nelle borgate che attraversa, Montebruno, Loco, Gorreto, Ottone e Marsaglia, i partigiani scendevano per la corvée dei rifornimenti e basta.
Un giorno capitò a Torriglia un maresciallo tedesco della marina da sbarco, ed era un omaccione pieno di burbanza che ostentava un mucchio di decorazioni: davvero non si capiva perché un uomo così valente l’avessero mandato proprio lassù, a comandare gente che in fondo non desiderava che attendere la fine delle ostilità in santa pace. Trattava la popolazione e i soldati stessi dall’alto in basso, e a tutti diceva di avere un gran prurito alle mani: ma i suoi nicchiavano, mostrandogli il cartello ch’era affisso all’inizio della galleria: «Achtung! Banditen!». Un mattino finalmente — eravamo nella settimana di Pasqua — si decise e, requisite una quarantina di biciclette, si mise in marcia con i suoi. Giunto che fu alla galleria cominciò con l’abbattere il cartello e, baldanzoso, si buttò a rotta di collo per la val Trebbia.
I nostri avamposti, colti alla sprovvista, fecero appena in tempo a dare l’allarme, ma quelli erano già lontani, attraversavano le borgate sparando all’impazzata per impaurire la gente, e senza nemmeno scendere dalle biciclette proseguivano: così fecero a Montebruno e a Loco mentre i nostri, quasi tutti addetti all’intendenza e ai trasporti, non appena si riavevano dalla sorpresa, cercavano rifugio nei boschi.
Giunti che furono al bivio di Loco, dove si biforca la strada e una carrettiera si arrampica a Rovegno e un’altra a Fontanigorda, presero per quella.
Intanto dal Comando della Divisione partivano staffette e ordini, ma le formazioni erano tutte smistate, qualcuna sulla camionale, qualche altra impegnata altrove: il Comandante stesso era non so dove; purtroppo a volte succede quando si presenta il bisogno. Solo il Commissario si trovava a Fontanigorda e con lui, al Comando erano rimasti una dozzina sì e no di ragazzi: c’erano, è vero, anche quelli della Missione americana, ed erano bene armati (tra l’altro avevano una nuova arma giunta con l’ultimo lancio, il “bazooka”) ma non appena fu dato l’allarme fecero zaino in spalla e si prepararono a partire per una località meno esposta. Queste pare che fossero le direttive ricevute dai loro dirigenti.
Alla sede del nostro Comando c’era pure Moro, venuto dalla valle Scrivia dov’era la sua formazione Non mi pare d’avere ancora parlato di Moro, diventato Commissario della nuova Divisione che s’era costituita proprio in quei giorni, la Pinàn-Cichero: dopo la guerra aveva ripreso il suo mestiere di fabbro e mandava avanti una botteguccia artigiana in riviera, sicché la gente s’è ormai dimenticata di che razza di partigiano in gamba egli fosse stato. Per fortuna dunque c’era lui, e c’era anche Gino, il comandante della « Severino », altro ragazzo in gambissima e, vedete? di lui mi hanno detto che ora comanda un reparto di polizia, di certo però non si sa più nulla: ma se leggeranno questa storia potranno dire che è la verità sacrosanta.
Tutti e due erano là per puro caso, venuti a discutere e magari a litigare un poco per via della spartizione del materiale dei lanci, ch’era ancora affidato a noi. Fatto sta che non appena vedono la confusione creata da tutte quelle telefonate, dagli ordini e contrordini che venivano impartiti, non ci pensano due volte e, presi quei pochi uomini che sono riusciti a racimolare, corrono a piazzarsi lungo il crinale che sovrasta la strada.
Intanto il maresciallo con i suoi, arrivato a Rovegno si era messo a razziare il paese: « Folere bollastre! Folere manciare bollastre! » sbraitava, e i contadini, poveretti, per tema di peggio correvano a dargli quel che potevano; e chi non aveva polli portava salumi e formaggi, mentre lui tutto insaccava, mai soddisfatto. « Achtung Banditen! », sghignazzava di tanto in tanto, e quando furono carichi per bene dette l’ordine di riprendere il cammino del ritorno con tutto quel ben di Dio, e la gente sospirava e piangeva.
Ma appena ebbero imboccato il bivio una bella scarica risuonò alle loro spalle, ed era la mitraglia di Scalabrino, comandante del distaccamento Guerra, che Moro aveva appostato tra i salici dei fiume; il maresciallo fece per arrestare la colonna ma i suoi avevano messo le ali e pedalavano furiosamente verso Loco, a cercare scampo nelle case. Fu allora che da tutte le parti si aprì un fuoco d’inferno: i nostri non erano molti, ma erano ben piazzati e soprattutto decisi a far pagare a quei briganti la loro imprudenza.
In breve, trascinandosi dietro una mezza dozzina di feriti e seminando per la strada polli, salumi e biciclette, i tedeschi riuscirono a rifugiarsi nella prima casa, all’inizio del paese, e di lì cominciarono a sparare. La gente del paese s’era intanata nelle cantine e non si muoveva, mentre il parroco. un brav’uomo grasso e rubicondo ch’era amico nostro, continuava a sventolare una bandiera bianca e gialla — la bandiera del Vaticano, ch’era l’unica che aveva — e invocava a nome dei parrocchiani una tregua. I partigiani mandarono dire che i tedeschi dovevano arrendersi, ma il maresciallo non ne voleva sapere: come si può parlare di resa a un tedesco della marina da sbarco?
Aveva saputo che nella casa accanto c’era il telefono della centrale elettrica collegato con Torriglia e Bobbio, e riuscito a raggiungere quella casa, s’attaccò al ricevitore, e urlava che gli mandassero subito dei rinforzi, perché era assediato dai « banditen »; ma quelli del presidio rispondevano picche, che non erano pazzi da legare come lui, per avventurarsi in val Trebbia. Fu allora che la sua burbanza cominciò a calare, ma non voleva arrendersi, nonostante che il buon parroco si sbracciasse dalla canonica a spiegare i partigiani erano più di mille, tutta gente incapace di torcere un capello ai prigionieri, e di questo se ne faceva garante.
«Nein!» rispondeva rabbioso il maresciallo, e di tanto in tanto dava ordine di sparare: ma su chi? Ai nostri nel frattempo erano arrivati dei rinforzi al comando di Bisagno e ora, da tutto il bosco di fronte alla casa, non appena un tedesco metteva fuori il naso, partivano scariche di sten e pareva che ogni albero sputasse fuoco. Così il maresciallo decise di attendere la notte per tentare una sortita; ma calata che fu la notte, per due volte che tentò dovette rientrare in tutta fretta, perché i partigiani facevano buona guardia.
Intanto, vista la piega che prendevano le cose, gli americani avevano deciso di unirsi ai nostri e, portato il « bazooka », all’alba lo piazzarono e spedirono sulla casa un bel colpo. Misericordia! Pareva che fosse crollato ogni cosa: poi quando la nuvola di fumo si diradò, comparve dalla finestra uno straccio: che era? una camicia, un grembiule… appeso a un manico di scopa: il maresciallo s’era deciso a parlamentare.
Andò il parroco, poveretto, e sul faccione rubicondo gocciava il sudore, non so se per la paura o per la fatica d’andare su e giù tra i partigiani e i tedeschi per mandare avanti le trattative: dapprima il maresciallo pretendeva che lo lasciassimo partire, poverino! magari con tutto quello che aveva razziato; in un secondo tempo voleva solo consegnare le armi, ma poi. dopo un secondo colpo di « bazooka», finì con l’accettare la resa senza condizioni.
Disarmati che furono i tedeschi, ci occupammo delle loro ferite che erano di poco conto, e li ricoverammo quasi tutti all’infermeria, tranne che uno: aveva una brutta ferita alla testa e non parlava. Dopo averlo esaminato il dottore disse: «Con questo, qui c’è poco da fare…».
«Non si può operarlo?» – chiese il Commissario.
«Impossibile operare in queste condizioni, senza ferri adatti…».
Ora il ferito aveva spalancato gli occhi e guardava un po’ uno un po’ l’altro, forse aveva intuito qualcosa.
«Se li avessi — riprese il dottore — mi sentirei anche io di tentare l’operazione».
«E a Genova?» fece il Commissario.
«Trasportandolo subito a S. Martino si potrebbe ancora salvarlo…»
A Loco c’era un’ambulanza, mi pare della Croce Verde genovese: era venuta fin lassù per riportare a casa un infermo, e s’era trovata bloccata in quel trambusto. Il Commissario vi fece adagiare il tedesco, eppoi staccato un foglio dal taccuino scrisse: “Quest’uomo può essere tenuto in vita solo con un pronto intervento: noi non siamo attrezzati. Ve lo mandiamo perché possiate salvarlo.” Appuntò il foglio sul petto del ferito e l’autoambulanza partì alla volta di Genova.
(Brano tratto da “La Repubblica di Torriglia” di Marzo – Di Stefano editore)
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