Bobbio e la Resistenza – una storia dimenticata (2a parte)

“La guerra procedeva rapida in tutta Europa e Radio Londra annunciava sempre nuove vittorie. Il 15 agosto gli Alleati erano sbarcati in Provenza e progredivano ormai velocemente verso l’interno. Una loro colonna puntava su Ventimiglia. Come avrebbero potuto le malconce armate di Kesserling difendere anche i passi alpini?”. La citazione è di L. Ceva.
Dopo l’armistizio con gli Alleati (8 settembre 1943) la ritirata verso nord dei reparti tedeschi, iniziata con l’abbandono della Capitale il 4 giugno del ’44, portò l’intero territorio emiliano a divenire una via di fuga obbligata verso la Germania. Intanto l’avanzata alleata da ovest verso la Liguria persuase i tedeschi che fosse necessario sgomberare della presenza ribelle la zona ligure-pavese-emiliana, tornando a presidiarla con ingenti schieramenti.
Lo spionaggio fascista, esistente in Bobbio, come testimoniato da Italo Londei, informò lo Stato maggiore della massiccia presenza di partigiani all’interno della Repubblica di Bobbio. Nel giro di poche settimane erano nati e già si erano diffusi due periodici: “Il Partigiano” e “Il Grido del Popolo”.
I nazifascisti sapevano anche dei continui aviolanci di armi, munizioni, medicinali e viveri.
La mattina del 26 agosto si sparge la notizia per le strade di Bobbio che sul Penice era in corso una battaglia tra partigiani e fascisti. Personaggio crudele e vendicativo il Colonnello Fiorentini che si era insediato a Varzi.
Lo sforzo dei partigiani per evitare la discesa verso Bobbio, con la conseguente inevitabile disgregazione della Repubblica, è inevitabile. Il nemico risalendo da Varzi incendiava, razziava e uccideva gli sventurati civili che capitavano tra le mani.
Situazione sempre più tragica. Morti e feriti sulle strade. Molti feriti ricoverati a Bobbio furono con barelle di fortuna trasferiti in Val Nure. Tedeschi e fascisti giunsero a Bobbio la sera del 27 agosto e trovarono una città completamente deserta. In questi giorni campeggia l’anziano Vescovo Mons. Bertoglio, il quale promette che non ci sarebbe stata resistenza all’interno della città. Gesto magnanimo del Pastore tanto che gli invasori evitarono di incendiare e devastare l’intero abitato.
Nei giorni 26 e 27 agosto al Passo Penice nell’incrocio con la strada tra il Brallo e il Monte Alpe avviene una delle più cruenti battaglie durante l’imponente rastrellamento. Le schiere nazifasciste operarono anche nell’alta Val Borbera, nella zona ligure-emiliana e anche in qualche vallata del Parmense.
Matteo Mielati illumina con dati precisi i vari tronconi delle truppe nazifasciste che a raggiera risalgono tra i fossoni del varzese verso il Passo. Giornate terribili, ma la superiorità dei nemici è evidente. La battaglia del Penice durò per ben due giorni.
Le forze fasciste e tedesche ammontavano a circa mille unità: i partigiani poche centinaia. Mai prima di allora i ribelli si erano trovati di fronte ad un nemico tanto agguerrito. È ancora vivo il ricordo dei 49 incendi che si potevano contare dalla vetta del Penice: San Pietro Casasco, Giarola, Collegio, Ca’ del Bosco. Attorno molti casolari isolati bruciavano.
La posta in gioco era rappresentata ormai dalle loro case e dalle loro famiglie. Gli uomini di Virgilio, di Paolo, di Giovanni, “più armati di cuore e di fegato” che d’acciaio, ebbero la netta sensazione delle responsabilità che stavano di fronte a loro.
I nazifascisti, partendo da diverse località parmensi, liguri ed alessandrine, erano riusciti ad avanzare lungo le valli Ceno e Nure, la Val d’Aveto, la Val Trebbia, la Val Borbera e la Val Boreca. Le perdite partigiane furono contenute: i morti furono tre, ma i feriti non si poterono quantificare.
Purtroppo la battaglia del Penice fu segnata da atti di crudeltà atroci ed inspiegabili da parte dei nazifascisti. Innanzitutto l’assassinio di Don Paolo Ghigini e del partigiano Nando Dellagiovanna. Don Ghigini si era prodigato per curare feriti e seppellire i morti, sia ribelli che repubblichini: lo colpirono con una raffica e lo finirono a pugnalate.
Il Mielati si sofferma sull’episodio del partigiano Dellagiovanna ancora più inquietante: catturato presso la sua casa di Varsaia di Menconico dove si era rifugiato perché ferito durante le prime ore del conflitto, il ventisettenne fu trasportato fino al Passo e qui, nella giornata del 29 agosto venne seppellito vivo.
I nazifascisti aumentarono la rabbia incendiando case isolate e cascinali. Lo scopo era di raggiungere Bobbio. Le truppe nemiche raggiunsero la nostra città all’imbrunire del 27 agosto. Alcuni gruppi scesero dal Brallo verso Dezza passando tra i boschi della Cernaglia e delle Mogliazze.
Nello scenario di queste giornate il Mielati con precisione puntigliosa e puntuale enumera e sottolinea i vari passaggi dei nazifascisti e si sofferma su alcuni “addii” di generosi partigiani. Entrano in gioco anche Zerba, Casola, Pej, Bogli, Alpe, Varni e la colonia di Rovegno dove fu ucciso un parroco di Alpe.
Un solo esempio. “Il tuo, Olga (un’infermiera), è l’ultimo viso amico che vedo – mi lasciò la mano e un instante dopo lo sentii dire ad alta voce: fate presto vigliacchi. Solo in quel momento mi resi conto che li stavano assassinando. Sembrava che i colpi e le raffiche non dovessero più finire, disperata gridai in faccia a quegli assassini tutto il mio disprezzo. Mi trascinarono via. Le brigate nere cantavano e il loro canto copriva il mio pianto”.
L’occupazione dell’Alta Val Trebbia avvenne senza spargimento di sangue o gravi ripercussioni per la popolazione civile. Solo un episodio carico di vendetta da parte dei nazifascisti: la distruzione di Cerignale. Il 29 agosto un gruppo di soldati fermi a Gorreto salirono a Cerignale, che allora poteva contare 700 abitanti, con l’ordine di compiere una spedizione punitiva: incendiare ogni singola abitazione del paese. Ben poche cose si poterono mettere in salvo. Vennero distrutti anche i granai e le stalle lasciando senza cibo la popolazione locale.
Sul versante ligure l’azione fu particolarmente distruttiva perché molti paesi furono dati alle fiamme, l’abitato di Casoni di Amborzasco fu raso al suolo. La battaglia di Allegrezze fu uno dei pochi successi ottenuti dal fronte partigiano durante il rastrellamento dell’agosto ’44.
Sempre verso la fine di agosto una tremenda rappresaglia ad Allegrezze, non tenendo minimamente in considerazione l’aiuto che l’intera popolazione del paese (in primis il parroco Don Primo Moglia e il Dott. Podestà) prestò ai 37 feriti della battaglia, prodigandosi anche per seppellire i cinque morti. Quel crudele personaggio repubblichino, senza un briciolo di pietà, decise di dare alle fiamme l’intero abitato, risparmiando solamente la chiesa e la canonica.
Il 27 agosto 1944 si spense nel sangue la fiaccola di libertà che la Repubblica di Bobbio teneva accesa da 52 giorni. La manovra nemica si conclude il 29 agosto.

Anno 1944. La possente offensiva nazifascista del mese di agosto non produsse una definitiva eliminazione della minaccia ribelle del territorio occupato. I partigiani tornarono ad operare nella clandestinità. Le zone più impervie e meno battute dai nazifascisti tornarono ad essere l’habitat naturale dei ribelli. Sono i mesi durante i quali si mette in evidenza il Sottotenente Italo Londei che comanda la VII Brigata di nuova formazione.
Momenti anche di una certa confusione tra i capi: sempre difficile la scelta degli uomini. Anche l’integerrimo Londei è sul punto di andarsene insieme agli uomini di cui si fidava di più. La disputa tra il partigiano Fausto e Italo “anche nell’ambito di uno scontro tra i titani della Resistenza, tra due valorosi e responsabili comandanti che non poterono rimanere all’interno dello stesso comando divisionale”.
Italo Londei, originario di Bobbio, dov’era cresciuto e dove erano rifugiate la madre e la sorella, non volle abbandonare al proprio destino i civili bobbiesi, lasciandoli in balia delle vendette nazifasciste. Il 2 settembre arrivarono a Bobbio gli alpini della Monterosa. A Bobbio la paura era enorme, si temeva l’arrivo delle truppe tedesche e degli uomini di Fiorentini che potessero vendicarsi su donne, vecchi e bambini. Ma anche questa volta, grazie all’intervento dell’anziano vescovo Mons. Bernardo Bertoglio, rappresaglie ed eccidi furono evitati.
La divisione Monterosa era costituita da soldati italiani che si consegnarono ai Repubblichini o imprigionati come disertori furono inviati in Germania per un addestramento di sei mesi. “L’errore del comando Repubblichino fu proprio questo, di non utilizzare questi soldati per lottare contro il “miscuglio di razze bastarde” angloamericane (così le apostrofò Mussolini), ma contro i partigiani”.
È la guerra civile, italiani contro italiani che credevano nella stessa Patria. “Uno sconvolgimento interiore nell’animo di molti alpini che in numerosi casi li portò ad abbandonare lo schieramento nazifascista. È una guerriglia che sfibra i partigiani, le azioni di giorno e di notte si succedono senza tregua: azioni alla garibaldina e costruite da scaltre improvvisazioni, da gente di 20 anni che vuol fare la guerra come i “picciotti”, guerra d’impeto e di individualità, non guerra strategica”, così scriveva Londei, guerriglia di logoramento quasi quotidiano.
Al di là del fiume la zona era controllata dalla IV Brigata di Virgilio i partigiani possono contare su un discreto numero di “collaboratori civili”, contadini di tutte le età, i quali prestarono volontariamente la loro opera, si offrivano come staffette e recavano informazioni. Più di tutti si distinse Mario Fruschelli, “di professione barbiere egli aveva modo di avvicinare gli alpini nemici e li invitava senz’altro alla diserzione. In pochi giorni consegnò a Italo Londei 54 alpini”.
L’ultimo tentativo però gli fu fatale, Fruschelli fu ammanettato e trasferito in un luogo prigioniero: maltrattamenti e minacce di fucilazione non mancarono. Ancora in queste settimane fu provvidenziale l’opera mediatrice del Vescovo Bertoglio, il quale fin da subito sostenne la necessità di compiere uno scambio di prigioniero. La testimonianza di Londei.
Occorre sottolineare alcuni atteggiamenti molto diversi. “I ribelli mantenevano sempre un comportamento improntato all’umanità e fornivano ai carcerati un letto su cui dormire, pasti caldi, assistenza medica nel caso in cui ci fossero feriti. I nazifascisti invece, se non passavano immediatamente per le armi dei malcapitati prigionieri, li maltrattavano, li bastonavano e li minacciavano di morte”.
I partigiani non erano affatto quei banditi sanguinari che la propaganda nazista aveva fino allora fatto credere, ma piuttosto dei ribelli per quegli stessi ideali di libertà a cui la sua stessa patria anelava.
A distanza di tanti anni queste vicende di guerra e guerriglia, di rastrellamenti, in un coacervo di odio, vendette e ripicche, possono apparire in una luce diversa. Ma se viste alla luce di una storia furiosa per una insensata guerra civile di italiani contro italiani, vien da pensare che la guerra è sempre crudeltà e che la violenza genera sempre violenza.

Epilogo, gli ultimi mesi della guerra partigiana, il coraggio e l’eroismo di giovani patrioti

La vita dei partigiani in questi ultimi mesi del 1944, fino ad arrivare al mese di aprile ’45 è caratterizzata da una guerriglia che si sposta dalla sponda destra alla sponda sinistra del Trebbia in diverse occasioni.
Sul proscenio la IV Brigata di Virgilio Guerci e ancora il presidio nazifascista, ancora
crudeltà, (il partigiano Sabino Rossetti, ormai cadavere, spogliato di tutti gli averi, venneseviziato e percosso crudelmente!).
Nel mese di  settembre l’evento di Rio Foglino che ogni anno viene ricordato dai bobbiesi,
ma di cui si è perso il ricordo. Un caso deplorevole, ma involontario: sparano contro ipropri compagni e le bombe uccidono Giovanni Ridella e feriscono Piatè e Carboni etc.
La guerriglia si addensa anche in Alta Val Trebbia. Nel cimitero di Rovegno nel dopoguerra vennero trovate alcune fosse comuni contenenti 119 salme, solo 57 poteronoessere riconosciute. Mese di ottobre ’44, parecchie offensive partigiane, azioni di disturbo.

Il comandante Londei così ci descrive la vita grama di questi eroi per la patria: “Dato l’incalzare delle azioni e l’allarme continuo, essi dormivano saltuariamente solo quando potevano e non c’era orario destinato al riposo. Soltanto qualche ora di notte o di giorno, a seconda dei casi. Il riposo ere fatto nelle cascine, sullo paglia, ma il più delle volte avveniva all’aperto, sul nudo terreno. Per mio ordine (di Italo) nessuno poteva spogliarsi: tutt’al più era concesso di allentarsi i legacci degli scarponi per dar ristoro ai piedi gonfi e fiaccati. Occorreva non farsi sorprendere dal nemico ed essere sempre pronti balzare in piedi. Raramente il tempo per soffermarsi a mangiare un piatto caldo, anche se molti, premurosi e quasi insistenti erano gli inviti…” così Londei con crudo verismo dipinge la vita dei partigiani durante l’inverno ’44/’45.

Il barbiere Fruschelli, unitamente ad altri partigiani sono portati nelle carceri di Chiavari, vi rimarrà per qualche mese fino a marzo ’45. Gli uomini di Londei riescono a rioccupare Bobbio per la seconda volta, ma la popolazione rimane fredda e distaccata.
L’inverno ’44/’45 fu particolarmente anti­cipato, freddo e gelo ovunque. La paura dei partigiani che il conflitto potesse prolungarsi oltre l’inverno e i tedeschi approfittare così per scagliarsi contro i partigiani. Inverno molto duro per i patrioti a causa delle difficoltà di rifornimenti e di indumenti. Anche gli avio­lanci sono ridotti.
Il rastrellamento nazimongolo
Nelle giornate attorno al 23 novembre – Festa del Patrono di Bobbio – si diffonde in città la notizia di un probabile rastrellamento. Infatti avviene in piena regola eseguito da truppe della Wehrmacht e soldati mongoli, ex prigionieri di guerra catturati sul fronte ucraino.
Il 27 novembre entrano in Bobbio. Il clima è pesante, si teme la vendetta da parte dei tedeschi. Entra ancora in campo il Vescovo Bertoglio, sente il dovere di difendere la sua città: organizza una commissione composta da tre sacerdoti e due laici, si tratta di salvare dalla distruzione e dalla sete di vendetta la città di Bobbio. I partigiani si riuniscono in un “consiglio di guerra” alla presenza del Comandante Emilio Canzi.
Ad un tratto l’azione militare dei nazimongoli si sposta nella zona di Coli, Peli e Faraneto. I nazimongoli incendiano cascine e abitazioni, uccidono, violentano, aggrediscono i civili incrociati lungo il tragitto.
Il lungo inverno
I mesi di dicembre e gennaio furono per i partigiani i mesi più duri di tutto il rastrellamento, pochi infatti erano stati gli inverni così rigidi e nevosi. Sempre Londei mette in luce il coraggio e l’audacia di questi suoi uomini “Alpini figli dei monti, la cui giovinezza era trascorsa tra pascoli e boschi e che già conoscevano i lunghi inverni vissuti nella neve tra le tormente, questi alpini patriarcali nella fede, nei costumi, negli interessi e che ora si levano quasi a simbolo dei partigiani più umili e più forti, più devoti nel sacrificio”. Così Londei valorizza i suoi uomini.
In un’imboscata un gruppo di “ribelli” furono costretti, spostandosi da San Cristoforo, rifugiarsi nel paesello di Lagobisione. Intanto parecchi furono i casi di diserzione, anche da parte di alcuni della Wehrmacht.
Siamo al nuovo anno 1945. Le continue e abbondanti nevicate si rilevarono come il peggior nemico del movimento della Resistenza. Londei e i suoi non si scoraggiano, continuano nelle loro azioni di disturbo tra Barberino e San Salvatore.
Interessante registrare uno degli episodi più tristi della Resistenza partigiana. In un’imboscata alcuni sciacalli si lanciarono contro un gruppo di arditi partigiani, uno Bellocchio era già cadavere, l’altro Monfasani ancora agonizzante. Al sopraggiungere degli avidi predoni Armando era ancora in vita e andava ripetendo: “Me so u’rmando da Vegn” (Io sono Armando da Vegni): finsero di non riconoscerlo. Di notte i parenti di Armando andarono a recuperare la salma: lo trovarono nella scarpata sottostante completamente nudo.

La ripresa dell’attività partigiana
La guerra era ormai agli sgoccioli, molti tedeschi erano riusciti a fuggire. Alcune formazioni partigiane si riorganizzano, le armi deposte sotto terra sono riprese, ristabiliti i collegamenti, ricostituiti i nuclei. È la ripresa. Gli aviolanci aumentarono, divennero sempre più frequenti e precisi. Ancora uno scambio di prigionieri, ancora intermediario è il Vescovo Bertoglio a cui fa da spalla il canonico Marini. I 40 civili imprigionati vengono liberati.
La terza liberazione di Bobbio e la gloriosa battaglia di Ponticello
Il 3 marzo 1945, verso le 5 del mattino Londei entra per la terza volta nella città di Bobbio liberata. Intanto le varie formazioni del pia­centino vengono riorganizzate seguendo una nuova struttura gerarchica.
Un fatto degno di nota: durante uno scontro, sette ore di combattimento, uno contro più di venti, provò ancora una volta di che tempra fossero gli Alpini. Durante un affondo un capo partigiano fu investito da una raffica di mitragliatore che lo ferì mortalmente. Le sue ultime parole furono: “Siate bravi patrioti, curate i feriti, non maltrattate i prigio­nieri e perdonate gli italiani che non la pensano come noi… Viva l’Italia! Viva i Partigiani!”.
La gloriosa battaglia di Monticello fu giustamente considerata da Londei “…episodio bellico più importante di tutta la lotta partigiana nella Val Trebbia”: i 36 patrioti rinchiusi nel castello di Monticello riuscirono a resistere per sette ore alle furiose sventagliate lanciate da oltre 500 nemici. Battaglia che può essere considerata la concreta rappresentazione dello spirito che guidò i partigiani nei 20 mesi di Resistenza. La vittoria fu possibile solo con il sacrificio e la sofferenza di uomini che in alcun modo abbattuti dalla mole, dal migliore armamento, dal miglior equipaggiamento e dalla miglior organizzazione del nemico, lottarono fino alla morte, vincendo il proprio egoismo e sognando una nuova patria democratica e libera. A pochi giorni di distanza viene liberata Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma: Piacenza il 28 aprile.
“Col 5 maggio 1945 finiva l’attività bellica dei patrioti e si giungeva all’epilogo grandioso, semplice come tutte le cose grandi: la sfilata attraverso le vie di Piacenza, in un’atmosfera grande di tripudio”. Londei.

Giunti alla fine di questo ottimo lavoro del Dott. Matteo Mielati, ritorna spontaneo un desiderio che ripetiamo: perché non dare alle stampe una ricerca così pregevole, chiara, ben documentata e ben colorita da giudizi e stime incondizionate dei giovani partigiani, pronti a morire per amor di patria? E tutto questo in risposta a chi spesso ha osato falsare la verità e oltraggiare questi coraggiosi “ribelli” con opinioni inaccettabili e irricevibili.
Queste pagine di Mielati lo dimostrato in mille modi: inoltre le accorate pagine di Londei ne sono una grande testimonianza. Questa tesi di Laurea potrebbe servire a illuminare le vicende della Resistenza di Bobbio e Val Trebbia agli studenti della Scuola Media e delle Scuole Superiori che spesso stancamente e senza interesse alcuno sono obbligati a partecipare ai cortei del 25 aprile e del 4 novembre.
Potrebbe il Comune di Bobbio addossarsi la spesa di pubblicare questa tesi di Laurea? Sarebbe un gesto valido ed efficace a favore dei nostri studenti e alla loro formazione culturale e umana.

Guido  Migliavacca

(Articoli tratto dal N° 33 del 26/09/2013, dal N° 39 del 07/11/2013 e dal N° 43 del 5/12/2013 del settimanale “La Trebbia”)

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