Quando viaggia, dovunque gli capiti di sostare, visita regolarmente i cimiteri. Ma la magniloquenza di quelli monumentali spesso lo delude. «Per abbondanza di candidati e carenza di spazi. Gli occupanti delle tombe ruotano con la velocità degli affitti brevi», precisa Claudio Visentin, docente di Storia del turismo all’Università della Svizzera italiana e coniatore, già vent’anni fa, di un neologismo che scrisse per la prima volta nel supplemento domenicale del Sole 24 Ore.
È il “cimiturismo” che lo ha portato a un terreno di caccia prediletto per le sue ricerche e la sua penna, in quella parte d’Appennino chiamata le Quattro Province, tra Pavia, Piacenza, Alessandria, Genova.
Ne è nato un volume agile di 130 pagine, edito dalla Ediciclo di Venezia, da oggi disponibile nelle librerie: si intitola “Passeggiate nei piccoli cimiteri” – lo scrittore si offre anche come guida per brevi tour – e non solo come l’ago che cuce è rinsaldato da citazioni da annotarsi ma anche e soprattutto dai disegni di Elena Bonini. Una scelta, azzeccata: niente foto, solo disegni, su sfondo di pagina avorio. A pagina 40 l’autore cita subito Bobbio, ne ripercorre la storia antica. Ha un Virgilio, si chiama Roberto: «Quando il cimitero è al completo una vecchia sepoltura viene riaperta e i pochi resti rimasti vengono lasciati nella tomba con nuovo morto della stessa famiglia », gli spiega lui, che un giorno vorrà essere cremato e disperso nel bosco. Visentin dimostra di aver capito quanto nelle comunità la morte sia sempre stata un’esperienza corale: «Se qualcuno moriva non c’era fretta di liberarsi del defunto». Roberto, che vive a Valformosa, a Brallo, gli ha detto però che i borghi d’Appennino erano una comunità e ora sono diventati un villaggio vacanze. Visentin in Valboreca ricerca quel senso di comunità allora tra faggi, castagni, roveri, carpini, cerri, conifere. Arriva a Vezimo e capisce subito che qui la memoria s’aggira ancora intorno alla tragica notte tra il 20 e il 21 agosto del 1944, quando caddero le bombe su quei giovani che volevano solo ballare per la festa del patrono San Bernardo.
Ma non ci sono solo le vite incise nelle lapidi di quei 32 morti quanto anche quelle ad esempio della famiglia Serra, che perde Maria (14 mesi), Giovanni (18 mesi), Giovanni (11 mesi), Giovanni (13 mesi) prima di rassegnarsi. A Tartago, poco distante, Giuseppe Barbieri di anni 24 morto sul bastimento Umbria nel mare Adriatico il 21 marzo 1919 dopo aver combattuto valorosamente per ben tre anni nella guerra italo austrungarica. Michele Barbieri – indica Visentin, pagina dopo pagina è invece tragicamente deceduto ad Albuquerque, nel New Mexico nel 1949: «Ma la tomba serve solo a tramandarne la memoria, perché il corpo di Michele non venne mai riportato in patria».
A Belnome, nella foto sulla sua lapide, Giacomo Zanotti ha un paio di imponenti baffi a manubrio: l’autore cerca però i due epici postini dalla gamba di roccia, Franco e Pino, e cita il percorso del postino oggi faticosa ma preziosa attrattiva turistica. Arriva ad Artana, Bogli, un paese canterino dove crebbero gli avi di Arturo Toscanini. «Il paese è vuoto, muto di voci, a eccezione del cimitero, dove gli abitanti di un tempo ancora aspettano i viaggiatori per raccontare la loro storia». Ma anche un cimitero può morire. Nel capitolo “Cimiteri abbandonati” Visentin cita San Cristoforo di Bobbio, tra cascate di acque termali, odore intenso di origano, i caporali della fanteria di Bobbio, quelli morti sul Carso. Visentin ha un forte senso della morte e da questo trae la forza della vita. Il mondo per lui resta un immenso cimitero. E la tendenza alla rimozione della morte, come fossimo tutti immortali?
«Altro non fa che candidarci alla nevrosi».
Elisa Malacalza da Libertà
(Articolo tratto dal N° 9 del 7/3/2024 del settimanale “La Trebbia”)
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