“Quando mi sarò deciso
di andarci, in Paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto”
Così leggiamo quasi all’inizio di una delle più note poesie di Giorgio Caproni, L’ascensore. Ma quale era il suo paradiso? Una delle tre città nelle quali aveva vissuto e che tanto avevano contato nella sua vita di uomo e di poeta: Livorno, dove era nato nel 1912 e dove aveva imparato la bellezza della musica, o Genova “verticale” dove aveva scoperto gli “amori in salita” e la poesia, o Roma dove aveva vissuto la maggior parte della sua vita (finita nel 1990) e aveva conosciuto e frequentato alcuni dei protagonisti del mondo letterario italiano? No, nessuna città, il suo paradiso era la val Trebbia e la prova ne è data dalla sua volontà di essere sepolto nel cimiterino di Loco, proprio all’inizio del paese che si raggiunge lungo la tortuosa statale 45: questa costeggia appunto l’affluente del Po tra Montebruno, capitale dei canestrelli uno dei quali enorme vi domina la strada, e il favoloso borgo di Bobbio, dominato da un esemplare castello dei Malaspina e sede del monastero di san Colombano, per secoli tappa obbligata dei viandanti (forse anche di Dante) che dalla Lombardia andavano verso la Liguria.
E in questo percorso, costeggiato da una boscaglia fitta e segnato da paesini disseminati sui fianchi dei monti che formano la valle, ecco Loco, un centinaio di residenti a 600 metri sul livello del mare: alcune case lungo la strada (sulla destra quella di Caproni segnata da una lapide), un negozio di commestibili e appena un po’ più in alto la parrocchia di N.S. della Guardia attorniata da altre case ben tenute.
Ma perché questo era il paradiso di Caproni? Qui per la prima volta egli fece il maestro (supplente) per un anno dall’autunno del 1935; qui conobbe Rina Rettagliata che sposò nell’agosto del 1938; qui si trovò l’8 settembre del 1943 e fino alla Liberazione fece parte come collaboratore civile di un reparto partigiano della Divisione Cichero comandata dal mitico Bisagno e riaprì la scuola elementare dove tornò a insegnare; qui, quando ormai abitava a Roma, tornava ogni estate per riassaporare, con lunghe passeggiate nei sentieri e lungo il limpido Trebbia, la “selvaggia bellezza” (così l’aveva definita) che gli era rimasta nel cuore e che aveva lasciato tracce consistenti nella sua poesia; a cominciare dal suo secondo libro pubblicato nel 1938, intitolato Ballo a Fontanigorda, il vicino paese nel quale sono spesso organizzati eventi per ricordare il poeta e dove una lapide indica la piazzetta dove si era svolto nel settembre del 1936 il ballo ispiratore; e a Caproni è dedicato il sentiero tra i castagni, da lui spesso percorso, che sale al Bosco delle Fate. E quella raccolta di poesie giovanili si apre con due liriche dedicate alla moglie Rina, che ritraggono soprattutto il paesaggio naturale e non vanamente impreziosito del suo “paradiso” fatto di “zolle ruvide” e di “case a colori grezzi”, mentre le candide colombelle volano sui tetti e nell’aria si ascoltano “i tocchi festevoli delle campane”, in un quadro autentico della “ Liguria / di rupi e di dolcissimi / frutti”.
Ma Loco ritornerà anche nella sua opera più matura e sarà emblema, nel 1972, del fenomeno sociale dell’inurbamento e dell’abbandono delle campagne nella poesia Lasciando Loco: “Sono partiti tutti. […] E io, io allora, qui,/io cosa rimango a fare” e se gli abitanti sono fuggiti in città per guadagnarsi uno stipendio sicuro a fine mese e per evitare la vita precaria dei contadini però è rimasta la natura e ciò che l’uomo ha costruito: “gli alberi/e il ponte, l’acqua che canta ancora”, verbo che indica la magica armonia (non si dimentichi il suo amore per la musica) della natura. Sullo stesso tema Caproni tornerà nel 1974, in tono però meno leggero e con un componimento più articolato e problematico, nella poesia Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia (piccola frazione montuosa della val Trebbia) segnata dalla sofferenza dell’abbandono, della mancanza del fiume e dei sassi, nella convinzione che “il trifoglio/della città è troppo/fitto”. E del resto che il tema dell’esodo sia in Caproni ricorrente (anche come eco della sua sofferta esperienza personale dell’abbandono di Genova, dove è perfino “gentile morire”, per andare a “Roma, enfasi e orina”) appare dalla stupenda raccolta Il passaggio di Enea, ispirata dal monumento (che si trova a Genova in piazza Bandiera) raffigurante il mitico eroe con il vecchio padre sulle spalle e il figlioletto per mano in fuga da Troia in fiamme. E ancora Caproni tornerà in val Trebbia con i suoi versi della poesia Statale 45 composta nel 1987, preoccupata descrizione della pericolosità della strada —
“Procedere con prudenza
Bandire ogni impazienza
La ripa su fa sempre più infida. Più subdola
Più di una volta la presunta meta si rivela un’insidia”.
E comunque, superati i pericoli e appunto le insidie, la Statale 45 giunge infine a Loco, al paradiso.
Francesco De Nicola
https://genova.repubblica.it/cronaca/2023/08/17/news/il_paradiso_di_caproni_in_val_trebbia-411432968/ (17/08/2023)
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