Il mulo appartiene alla famiglia degli equidi; si tratta di un ibrido derivato dall’incrocio tra l’asino stallone e la cavalla. Al contrario, l’incrocio tra il cavallo stallone e l’asina genera il bardotto, ibrido molto più piccolo del mulo, infatti la sua altezza massima al garrese è 1,40 metri, mentre il mulo può raggiungere l’altezza di 1,70 metri.
L’aspetto esteriore del mulo varia a secondo delle razze asinine e cavalline tra loro incrociate.
Si ritiene che la femmina influenzi la struttura scheletrica e il maschio l’aspetto e le caratteristiche fisiologiche. Il mulo ha la testa più grossa e le orecchie più lunghe del cavallo, la sua criniera non è molto folta e il pelo è corto, come pure il collo. Rispetto al cavallo è molto più resistente; per questo motivo è da sempre utilizzato come animale da soma e da traino. Il mulo ha un temperamento calmo e soprattutto accetta le condizioni più disagiate e i lavori più faticosi. I maschi sono sterili, mentre tra le femmine vi sono alcuni casi di gravidanza che, però, solitamente non viene portata a termine.
Secondo quanto ricordo, in Alta Val Trebbia erano rari gli allevamenti di muli con cavalle fattrici. I puledri appena svezzati e venduti sulle fiere, generalmente venivano dalla Val di Taro o dalla Val di Ceno.
Essi crescevano nelle stalle e nei pascoli dei contadini e dopo l’età dì due anni incominciavano le prime fasi del loro ambientamento al lavoro.
I puledri inizialmente dovevano abituarsi a sopportare il basto e la briglia, successivamente a trasportare piccoli carichi. Poi venivano addestrati al traino della slitta e infine del carro. Quest’ultima fase della domatura era spesso la più difficile. Il puledro si spaventava facilmente sentendo alle sue spalle il rumore delle ruote del carro. Bisognava procedere con molta pazienza fino a quando l’animale era completamente domato. Superato questo primo periodo, al mulo venivano applicati i primi ferri agli zoccoli, così l’animale era pronto per una vita lavorativa al servizio del suo padrone.
Qualora il mulo fosse rimasto nell’azienda della famiglia contadina il suo lavoro non era molto gravoso e continuo. Consisteva principalmente nel trasportare localmente: legna da ardere, carbone, stallatico, fieno, castagne, patate ed altri prodotti della terra, con periodi d’inattività. Però non tutte le famiglie contadine avevano la possibilità di mantenere un mulo al proprio servizio.
Il mantenimento dell’animale aveva un costo che poteva essere compensato soltanto con il suo assiduo lavoro, cosa che non avveniva nell’ambito contadino.
Mantenere un mulo significava rinunciare al reddito di una mucca (latte, formaggio, vitelli, ecc.).
Perciò, specialmente se l’animale era di grossa taglia, il contadino lo vendeva quando aveva raggiunto il suo massimo valore, corrispondente all’età di tre o quattro anni. Molto spesso i muli cresciuti nell’ambiente contadino erano acquistati da commercianti che eseguivano il trasporto della loro mercanzia su lunghe distanze. In tal modo i quadrupedi entravano a far parte di carovane governate da mulattieri al servizio del loro stesso padrone.
Oppure venivano comprati da mulattieri consociati fra loro che possedevano muli propri e trasportavano per conto terzi.
In ambo i casi il lavoro era estremamente duro sia per i mulattieri sia per gli animali.
Giornalmente, con qualsiasi tempo, bisognava percorrere più di trenta chilometri, lungo strade di montagna, a volte con pioggia, neve o grandine; attraversare torrenti in piena o proseguire su strade fangose oppure ghiacciate, sperando sempre di non fare brutti incontri con rapinatori.
Alla fine di ogni giorno, giunti al punto di sosta, per i mulattieri la giornata di lavoro non era ancora finita; bisognava scaricare la merce, sistemarla nei depositi ed accudire ai muli, dando loro da mangiare e da bere.
All’alba del mattino seguente, prima di partire occorreva spazzolare i muli con brusca e striglia e ricaricarli per la successiva partenza.
Nei punti di sosta maggiormente attrezzati vi erano stallieri che si prestavano ad accudire agli animali in sosta.
Le merci trasportate dalle carovane che percorrevano le mulattiere dell’Appennino ligure comprendevano svariati prodotti, fra questi i principali erano le granaglie, provenienti dalla Val Padana, e il sale che dagli approdi liguri andava verso i paesi d’Oltregiogo.
In aggiunta a quanto è già stato accennato parlando delle carovane che partivano da Rapallo, sul libro “Castrum Turrilie” di Mauro Casale, troviamo un lungo elenco delle merci che nel 1700 transitavano per Torriglia e sul Passo della Scoffera; dal quale risulta che le carovane oltre al sale trasportavano: riso, granturco, fagioli, grano, otri di vino, agnelli, biada, castagne secche, legname, lino, canapa, stoppa, seta, filati, formaggi, carbone, ferro, canne, ferrame, tele, orbaci, lanette, corami, cuoi e scarpe, piante di limoni, cedri, mele, pere, olio, sapone, carne, carta da scrivere, noci, uova, calce e mattoni, tabacchi, polvere da sparo, archibugi, sevo, farina di diverse qualità, piombo e stagno, corda, carne salata, polleria e pesci conservati.
I mulattieri si distinguevano per il loro abbigliamento: indossavano gambali di panno pesante (scafaròttì), abbottonati esternamente, che arrivavano fino al ginocchio e scendevano a coprire gli scarponi, ai quali erano fissati con una cinghia di cuoio. Un cappello di feltro impermeabile a larghe falde proteggeva il loro capo dall’intemperie.
Durante l’inverno portavano sulle spalle un pesante mantello (ferraiolo) oppure una coperta di lana; per ripararsi dalla pioggia avevano un ampio ombrello dalla tela colorata e le bacchette di legno. Essi tenevano sempre a portata di mano un coltello ben affilato che poteva servire, in caso d’incidente, a liberare il mulo dal carico, tagliando prontamente le cinghie del basto e le corde che legavano la soma. Nel loro corredo non mancavano mai alcuni utensili da maniscalco e sellaio, utili per riparare guasti agli zoccoli o ai finimenti dei quadrupedi, che potevano capitare durante il viaggio. La frusta (scuriàzzu), dal manico di legno di fico, corto ed intrecciato, la portavano sulla spalla oppure appesa al collo. Mediamente ogni mulattiere conduceva cinque muli.
Finimenti del mulo, per trasporto someggiato.
La cavezza è un finimento fatto di strisce di cuoio con fibbia al sottogola, che cinge la testa del mulo ed è collegato a un tratto di corda che serve per condurre l’animale a mano o legarlo nella stalla.
La briglia è il finimento col quale viene guidato il mulo; comprende il morso, le redini e i paraocchi. Anch’esso è fissato alla testa dell’animale mediante sottogola affibbiato. Il basto è una rozza sella imbottita posta sul dorso del mulo, predisposta per portare la soma.
Esso viene assicurato sul dorso del quadrupede mediante cinghie di cuoio appositamente dimensionate che comprendono: la braga, che cinge la parte posteriore dell’animale, il sottocoda, il pettorale, affibbiato sul petto, e il sottopancia, anch’esso affibbiato. La soma nella maggior parte dei casi è formata da due balle o sacchi di merce, più o meno di uguale peso, sistemati su ambo i lati del basto e trattenuti accoppiati da una funicella (cùbbia) che li vincola in due punti con passate scorrevoli, onde poter regolare l’altezza e l’inclinazione del carico. Qualora il peso lo consenta, un terzo sacco può essere sistemato tra i primi due. Il tutto verrà fortemente legato al dorso del mulo tramite una larga cinghia di tela (sùsta) che gli passa sotto il ventre, la quale, da un lato porta una coppia di robusti ganci, mentre dall’altra parte termina con due buone corde che servono a legar la soma. Per stringere maggiormente la soma viene usato un tronchetto di legno tondo e ricurvo (turzòu) che, attorcigliando la legatura, funge da tenditore.
Nei giorni di pioggia i mulattieri coprivano la soma con un’incerata (patìggia), che ogni mulo aveva in dotazione, e proteggevano la testa del quadrupede con una cuffia, anch’essa impermeabile.
(Brano tratto da “Le antiche mulattiere” di Guido Ferretti, edito dalla Comunità Montana Alta Val Trebbia)
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