Bogli e il sogno di Alessio

“L’ultima volta il lupo l’ho sentito lassù, tra le rovine del forte”. Alessio indica con la mano una cresta ripidissima della val Boreca. Terra selvaggia, cuore orografico delle “quattro province”, Pavia, Genova, Piacenza e Alessandria. Terra di tutti, insomma, eppure terra di nessuno. Abbandonata. Troppo aspra, troppo fuori mano, costellata di paesini deserti (specie sul versante sud) che a passarci d’inverno diresti che la gente è scappata in fretta e furia dopo un’allarme atomico. Narra la leggenda che i primi  insediamenti di questa vallata furono fondati da disertori cartaginesi che, nel 218 prima di Cristo, abbandonarono Annibale e i suoi elefanti impegnati nella battaglia del Trebbia. Lo testimonierebbero i nomi di alcuni villaggi: Tartago da Chartago, Zerba da Djerba e via così. Dopo duemila anni sono ancora dei “disertori” a tenere accesa una luce. Scappano da una battaglia, quella contro la città e il suo niente post moderno e se ne vanno a combatterne un’altra: contro l’abbandono, la gravità (in senso fisico, viste le pendenze estreme) e i silenzi infiniti degl’inverni sull’Appennino.
Alessio Toscanini, 38 anni, lontano discendente della famiglia del celebre musicista, il silenzio lo conosce bene, e anche la solitudine. “La sera non è che mi dispiacerebbe avere qualcuno per scambiare quattro parole, ma visto che non c’è…ne faccio a meno. E poi così non litigo con nessuno”. E salito quassù tre anni fa, e non è più tornato a Voghera, se non per qualche fugace commissione. In città c’era chi pensava che non avrebbe resistito. E invece, eccolo lì, al suo terzo inverno nel paese fantasma. Con la sua dozzina di capre da curare, la legna da spaccare e un sogno in tasca. “Mi piange il cuore a vedere cadere tutto a pezzi”.
A qualche decina di minuti a piedi, sulla vecchia mulattiera che conduce ad Artana, si incontra una piccola cappella di pietra. “Si dice che l’abbia fatta costruire una famiglia del villaggio per la grazia ricevuta dalla loro bambina. Quando scomparve, infuriava una tormenta di neve. I genitori la cercarono per tre giorni e tre notti. Il quarto giorno la trovarono qui. La bimba raccontò di una signora che l’aveva nutrita e protetta dal freddo e dalla bufera”.
Verso il mare, il monte Alfeo si staglia sul cielo terso di gennaio, l’acqua nella fontana di Bogli si è ghiacciata e l’unico camino che fuma è quello della casa di Alessio. Fuori dalla porticina verde razzolano le galline e lo aspetta il micio  Lino,  un gattone bianco e grigio che sembra abbia fatto la guerra. “Gente in questo periodo non se ne vede, gli ultimi li ho visti prima di Natale, son passati a prendere il vischio”.
Come altri borghi della val Boreca, anche Bogli d’estate si rianima di qualche centinaio di villeggianti. “Mi piacerebbe riaprire il piccolo negozio, sarebbe un servizio per i turisti e un aiuto alla mia attività, che ancora stenta. Un altro sogno è riuscire a ripiantare il grano e rimettere in funzione uno dei vecchi mulini della valle. Si potrebbe portarci ancora il grano a dorso di mulo e macinarlo, sarebbe una bella esperienza per i ragazzi delle scuole e non solo. E poi i formaggi, le mie capre da­rebbero abbastanza latte per una piccola produzione, ma senza un locale con tutti i crismi non posso. E io i sol­di mica ce li ho. Poi adesso ho tutte le capre gravide e già farle partorire sarà un bel daffare!”.
Tra poche settima­ne questo pezzetto di valle si sveglierà al belato dei capret­ti appena nati. Alessio si illu­mina e racconta la storia di una capra strappata a morte quasi certa durante un parto difficile. “Era il primo anno quassù ed ero meno esperto. I veterinari fanno fatica ad arrivare e così spesso ti devi arrangiare. Il capretto era podalico. Chiamai il veterinario che mi spiegò come fare, ma non era mica facile. Mi diceva di ungermi la mano e metterla dentro per girare il piccolo, ma io non riuscivo. Alla fine il piccolo è nato, stava bene, ma dopo la mamma è rimasta a terra per settimane, niente sem­brava aiutarla. Poi ho pen­sato di rimetterla in piedi usando una vecchia sedia e una cintura. Ogni giorno la sollevavo e la mettevo lì per qualche minuto,  legandola per non farla cadere. Una specie di imbragatura fai da te. Siamo andati avanti così per due mesi. In primavera, quand’è stato il momento di portarle nel recinto estivo sul monte la capretta ci è andata sulle sue zampe senza fatica”. E, da allora, è tornata a scorrazzare per la val Boreca.

Ermanno Bidone

(Articolo tratto dal N°163 Gennaio-Febbraio 2017 della rivista “Oltre”)

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