“Non esiste un posto al mondo” è l’esordio letterario di Maurizio Carucci, cantautore e contadino, voce degli Ex-Otago. Un libro in cui la parola vorrebbe spesso farsi silenzio, un volume di cammino e di sosta, di ombra e di luce, capace di metterci in contatto con la parte più smarrita del nostro Paese. E, perché no, anche della nostra anima. L’artista parte dalla sua storia e dalla sua vita per tracciare una rotta collettiva che conduce a piccole e grandi riflessioni sul nostro tempo, schizofrenico e imprendibile, dove ciò che conta sembra essersi smarrito.
Carucci, oggi tanti cantautori, forse troppi, pubblicano libri. In che cosa vorrebbe distinguersi?
«La prima cosa che mi sono chiesto, infatti, è stata: ha senso realizzare quest’opera? Qualche anno fa, appena ho iniziato a diventare conosciuto, praticamente tutte le case editrici italiane mi hanno chiesto se volessi scrivere un libro. Ho sempre rifiutato, non sono un romanziere. Superati i quarant’anni, però, è come se avessi fatto un salto di qualità. Il mondo mainstream, veloce e basato sui numeri mi ha definitivamente stufato e ho sentito l’esigenza di scrivere un libro partigiano, schierato, non da classifica. Un libro che non è quello furbetto di “un cantante famoso”, ma di un uomo che più va avanti e più vede complessità. E per questo crede che si debba rallentare…».
Nel libro parla del suo amore per la natura che dai palazzoni di Marassi l’ha portata a vivere in Val Borbera, a Cascina Barbàn, dove oggi fa il contadino e il cantautore. Dentro il volume c’è tutta la sua storia?
«No, i cenni autobiografici sono un pretesto per ragionare su molto altro. All’interno del libro racconto anche il viaggio a piedi dall’Appennino a Milano, è un iter reale, ma allo stesso tempo simbolico. Per me partire da un territorio lontano e arrivare, passo dopo passo, in una città super collegata al mondo come Milano è rivoltoso, controcorrente. È un attraversare diversi mondi. Non siamo più abituati a vedere la realtà a quel tipo di velocità. Siamo una società, come dicevo, in cui le complessità aumentano in ogni campo, dai diritti civili al sistema lavoro fino ai rapporti sociali. E per capire certe dinamiche non bisogna correre, ma prendersi il giusto tempo per riflettere».
Lei ha un’anima inquieta?
«L’inquietudine e la mancanza sono altri due temi centrali del libro. Siamo tutti pieni di buchi. A volte troviamo degli escamotage per cercare di riempire quei fori: c’è chi fa sport, chi fa figli, chi fa arte, chi si avvicina alla spiritualità. Più volte, nel mio campo, ho sentito dire “la musica è una medicina”. Effettivamente è così. Siamo tutti incompleti e inquieti. Cerchiamo un modo per sentire meno quel peso. Io, con il tempo, ho imparato a portare l’inquietudine nello zaino, a camminare con essa. Altre volte ne ho sentito il peso schiacciante. Gli Ex-Otago sono sempre stati il mio Paese in cui far festa, il progetto con cui tengo a bada la mia parte più oscura. Tutti noi lottiamo per sfiorare la felicità, anche se questa società sembra lucrare sulle nostre debolezze».
Che cosa le pesa?
«L’idea che tutto passi attraverso la lente dei numeri e del mercato. Vivere a contatto con la natura mostra quanto “i valori” materiali di questa epoca siano puramente illusori».
Non ha mai avuto ripensamenti sulla sua vita bucolica?
«Io metto in dubbio tutto. Per attitudine. Ma non ho mai trovato una vera alternativa alla vita che faccio oggi. Non ne vedo un’altra rispetto a quella che mi fa abbracciare la natura. Va anche detto che, essendo ligure, genovese, contengo molteplicità, amo tante cose diverse. Da ligure posso amare il mare, la montagna, la città, la collina e tanto altro. I luoghi forgiano le persone. L’essere poliedrici è un tratto fortemente ligure e mi piace l’idea di assecondarlo il più possibile (sorride, ndr)».
I suoi maestri a livello di scrittura?
«“Un indovino mi disse” di Terzani è uno dei libri più potenti che abbia mai letto. Amo Mario Rigoni Stern che scriveva libri con le mani consumate dal far legna, Cesare Pavese, Italo Calvino, Marco Aime, Serge Latouche, con il suo concetto sempre più attuale di “decrescita”».
Quanto sono importanti, durante il cammino della vita, gli incontri?
«Sono tutto. Nel libro si riflette anche su questo. E contano tanto gli incontri positivi quanto quelli dolorosi, che poi portano a separazioni e ferite profonde. La mia più grande paura è proprio quella di smettere di praticare l’arte dell’incontro ove si celano gli avvenimenti più significativi dell’esistenza. Io ho sempre cercato di essere un’antenna, di intercettare le situazioni e le persone capaci di farmi crescere e maturare. E non bisogna avere paura di sbagliare, di sprofondare nella merda, perché anche “dal letame nascono i fior” come cantava De André».—
Claudio Cabona
https://www.ilsecoloxix.it/(03/10/2024)
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