Commozione, tanta. Come quando la voce di Letizia Bongiorni, 90 anni, ha ricordato con la voce rotta dai singhiozzi gli istanti drammatici che seguirono i boati del bombardamento alleato. O come quando sono stati citati, uno ad uno, i nomi delle 32 vittime, tutte giovanissime. Come quando, ancora, Anna Leonida ha letto la testimonianza di Pasqualina, una superstite. Come quando, infine, le musiche di Franco Guglielmetti, Anaïs Rio e Maddalena Scagnelli hanno trasportato ancora di più i presenti nel clima di una notte che doveva essere di festa ma che è diventata tragedia.
A Vezimo accadde così: che una lanterna giustificò una bomba. Bisogna tornare al 21 agosto 1944: 80 anni fa, è estate, intorno c’è la guerra ma i giovani hanno ancora voglia di ballare, per una sera soltanto, protetti dalle montagne. Accendono una lanterna, ridono, si balla, ci si vuole dimenticare dei bombardamenti, delle violenze, almeno per qualche ora. È notte 80 anni fa, ma c’è un paese su in Valboreca che non dorme e danza. È notte 80 anni fa e c’è “Pippo” a “vigilare” le montagne: vede una fiammella, quella di una lanterna, e giù le bombe. È notte 80 anni fa, quella della festa di San Bernardo che è il patrono di Vezimo, e nessuno tra quei monti l’ha più dimenticata.
Da circa vent’anni la giornalista Elisa Malacalza è abituata a dar voce ai nostri Appennini sulle pagine di Libertà: l’eco della strage del 21 agosto 1944 è arrivata fino a lei attraverso i giri strani che fa la storia e da qui è nata l’idea di scrivere un libro. «Volevamo solo ballare. Memorie della strage di Vezimo. 21 agosto 1944» (Officine Gutenberg) si intitola ed è stato presentato – con il patrocinio del Comune di Cortebrugnatella – domenica 28 luglio in piazza Veneziani, a Marsaglia: presente l’autrice, che è stata intervistata dal collega Marcello Pollastri, ma anche Alice Lombardelli e Marco Ridella, rispettivamente nipote e figlio di due sopravvissuti alla strage e autori di due interventi raccolti nel libro (nel quale c’è anche una prefazione del giornalista Giangiacomo Schiavi). «È un libro corale, non mio, perché raccoglie tante voci, quelle dei sopravvissuti ma anche dei loro familiari e di quelli delle vittime», spiega Malacalza.
«Nella strage sono morte 32 persone. Per decenni sono state dimenticate, un po’ perché a Piacenza i bombardamenti avevano fatto centinaia di vittime e un po’ perché Vezimo è un luogo isolato fra le montagne». Lo era anche allora, ma tante famiglie vi abitavano: oggi resta un’osteria e le persone che tornano in agosto per il un mese di villeggiatura. «Fino agli anni Sessanta si sosteneva che si trattasse di una strage nazista, ma invece poi si è scoperto che è stato un bombardamento alleato», continua la giornalista. «Ogni anno i morti vengono ricordati in una cerimonia: in quasi vent’anni di lavoro non avevo mai potuto partecipare al di là degli articoli scritti, poi ho conosciuto Alice Lombardelli, il cui nonno era un sopravvissuto di quella notte. È stata lei a esprimere un desiderio, quello di ricordare quei morti».
Il libro di Malacalza però non è un libro di morte, ma racconta di come si sopravvive a essa: di come ci si rimbocchi le maniche dopo che tutto è crollato, di come si ricominci quando il mondo e le famiglie intorno sono distrutte. «Non è un libro che ha pretese storiche: volevo salvare le tracce della profonda sofferenza rimaste dopo il bombardamento», ammette l’autrice. «Così, lo scorso dicembre su Libertà abbiamo lanciato un appello a chi quella notte di 80 anni fa era a Vezimo e a chi ne aveva sentito raccontare. Grazie a quella richiesta si sono aperte case e mondi: sulla storia e su come il trauma si trasmetta nelle generazioni. Su come si impara a conviverci e questo mi ha spinto ad andare avanti». Il risultato ora sta tutto qua, racchiuso in poco meno di 200 pagine traboccanti di memorie e di una proposta: trasformare il cimitero di Vezimo in un cimitero di guerra. «Quel cimitero andava riconosciuto subito dopo la strage e la Liberazione», sostiene Malacalza. «Ma con il senno del poi è sempre facile parlare e giudicare. In quegli anni tutto era infatti già un cimitero di guerra. Oggi quel che si può fare è restare ad ascoltare quei morti, chiedergli come stanno ovunque si trovino e difendere per loro la pace, ascoltare un paese che muore. Sperando ci insegni, come ha fatto, la vita».
Elisabetta Paraboschi
(Articolo tratto dal N° 27 del 1/08/2024 del settimanale “La Trebbia”)
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