L’attività del carbonaio (denominato in dialetto “carbunin”), diffusa fino alla metà del ‘900, veniva svolta anticamente in aree boschive, dalla primavera fino all’autunno e consisteva nel tagliare la legna e bruciarla in apposite “carbonaie”, al fine di ottenere appunto il carbone vegetale, attraverso un processo di lenta combustione.
In genere veniva privilegiata la legna proveniente da cerri, lecci e carpini, rispetto ai castagni, tigli e olmi, che venivano considerati meno pregiati e di minore resa. In effetti la carbonaia veniva realizzata opportunamente su un terreno piano, per lo più riparato dai venti ed in prossimità di una fonte d’acqua, collocando una canna fumaria al centro di un cerchio, corrispondente alle dimensioni della stessa carbonaia, che assumeva quindi una forma conica con la legna accatastata intorno, ponendo i pezzi più piccoli nella parte superiore, mentre la superficie esterna veniva ricoperta di fogliame e terreno, per evitare che l’aria penetrasse all’interno, mentre venivano praticati altresì dei fori laterali.
L’accensione della carbonaia avveniva introducendo da cima a fondo delle braci ardenti ed il relativo processo di combustione veniva vigilato giorno e notte, durante due settimane, attendendo il raffreddamento del carbone così ottenuto, che poteva essere infine venduto per l’uso domestico, allo scopo di impiegare bracieri, caldaie e camini, nonché per l’utilizzo artigianale (fabbri e ferri da stiro), tenendo conto che da 100 quintali di legna arsa si riuscivano a ricavare circa 15 chilogrammi di combustibile, che venivano raccolti in appositi sacchi di liuta. Sovente il carbonaio aveva al seguito la famiglia, alloggiata nei pressi in povere capanne e giacigli di paglia per il riposo.
Si rammenta che tale antico mestiere ispirò d’altronde la “Carboneria” nel XIX secolo, ovvero la società segreta che si rese protagonista nel corso del Risorgimento e che riprese in un certo senso la sua peculiare arcana ritualità, legata alla produzione del carbone: organizzata gerarchicamente, si radunava in locali chiamati “baracche”, che facevano riferimento a livello superiore alle “vendite”, con una “vendita suprema” al vertice.
All’interno delle “baracche” era presente una sorta di altare su cui veniva riposto del carbone, simbolo della fatica, dell’acqua che richiamava la purezza, del sale per ricordare la condotta incorruttibile, un gomitolo come il vincolo di solidarietà, una fascina di legna che riconduceva alla coesione, una corona di spine che raffigurava il sacrificio ed una piccola scala per rappresentare l’ascesa all’interno della setta, come riporta Giacomo Spinelli in “La Costanza ed altre vendite carbonare in terra di Bari” (2009).
Alessandro Rapallini
(Articolo tratto dal N° 24 del 6 luglio 2023 del settimanale “La Trebbia”)
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