Introduzione
Appennino delle Quattro Province è una definizione che identifica un territorio delimitato grosso modo dai corsi dei fiumi Trebbia e Scrivia, a est ed a ovest, dai monti dell’entroterra genovese, a sud, e dalle colline del Tortonese e dell’Oltrepò Pavese e piacentino, a nord, ovvero un territorio prevalentemente montano suddiviso tra le circoscrizioni amministrative delle province di Alessandria, Genova, Pavia e Piacenza [1].
La denominazione Quattro Province riflette una comunanza culturale e sociale che è sempre stata molto forte tra le popolazioni locali e che interessa vari aspetti culturali, quali la musica e il canto tradizionali, i riti, i dialetti, le forme di economia e gli scambi commerciali tra le valli dei quattro versanti amministrativi del territorio [Ferrari et al., 2008]. Le analogie culturali non riguardano solo usi e costumi, ma sono riscontrabili anche nei tipi edilizi storici. In particolare, le architetture più antiche, sia civili che religiose, presentano comuni caratteristiche ed elementi tecnologici che connotano in maniera peculiare questa area, con alcuni esempi in valli e territori limitrofi, al di fuori dei confini delle Quattro Province (e.g. Val di Magra, Val di Taro, Cinque Terre).
Le testimonianze materiali dei tipi architettonici comuni sono diffuse soprattutto nelle aree del genovesato — specialmente nelle di valli Sturla, Penna, Fontanabuona, Malvaro, Aveto, Brevenna — e nel piacentino — con maggiore concentrazione in val Trebbia, alta val Nure, alta val Tidone; nell’area pavese sono state ritrovate principalmente nelle zone di Romagnese, Varzi e Zavattarello, mentre nell’alessandrino sono in zone circoscritte, nei bacini della val Curone e della val Borbera.
Le testimonianze materiali più antiche vengono associate alla cosiddetta architettura eulitica (dal greco eu e lithos, “bella pietra”) [2], termine utilizzato dallo studioso e paleografo Osvaldo Garbarino [2007] per identificare un modo di costruire caratterizzato da un uso altamente simbolico e quasi monumentale della pietra locale.
La manifestazione più significativa di questa arte muraria sono i massicci architravi dei portali, che conferiscono un senso di solennità e sacralità all’ingresso delle abitazioni, e su cui spesso è possibile leggere date e simboli incisi direttamente sulla superficie. Gli esempi di architettura eulitica in territori non compresi nell’area delle Quattro Province non sono stati considerati in questo articolo, sebbene parte integrante di una ricerca qui solo parzialmente descritta.
Caratteri costruttivi
Le costruzioni storiche diffuse nell’Appennino delle Quattro Province sono realizzate con strutture in muratura di pietra locale, generalmente calcari marnosi, anche se in alcuni territori dell’Appennino Ligure, come la val Fontanabuona, è diffusa l’ardesia in relazione alla presenza delle cave di questo materiale. Le costruzioni civili erano realizzate su pendii, adattandosi e sfruttando il naturale declivio. I piani terra erano adibiti a funzioni di servizio – stalle, pollai, depositi — e i piani superiori, destinati a uso abitativo, potevano essere raggiunti tramite scale esterne. I collegamenti verticali interni avvenivano per mezzo di scale a pioli e botole nei solai, realizzati con travi e tavolato. Le coperture erano realizzate con ciappe, ovvero lastre irregolari di pietra sovrapposte, ed erano prive di canali di gronda. Talvolta, all’esterno, si trovavano i forni per il pane, che potevano essere di uso comune, anch’essi di muratura di pietra e copertura con ciappe.
Il sistema costruttivo è basato sulla costruzione di pareti verticali portanti con spessore abitualmente non inferiore a 60 cm. I muri presentano un aspetto simile a quello delle strutture a secco, ma gli elementi di pietra sono solitamente posati con scarsa quantità di malta — per lo più misture magre a base di calce e sabbia o terra argillosa – non visibile sul paramento esterno, che risulta caratterizzato da filari di conci con giunti molto sottili. In particolare, le porzioni di muri crollati permettono di rilevare la presenza di due paramenti paralleli, ogni tanto con diatoni posti di testa per meglio garantirne l’ammorsamento; in profondità, tra i due paramenti, sono presenti pietre irregolari e schegge di materiale lapideo, con un po’ di malta, a rinzaffare la struttura. La stabilità del muro è demandata quasi esclusivamente alla giacitura e alla sapiente connessione tra i conci lapidei [Garbarino, 2007].
Nei punti di incontro tra i setti murari, l’ammorsamento avviene con conci di maggiori dimensioni, spesso connotati da una lavorazione più raffinata. Lo stesso si riscontra per i cantonali delle bucature, portali e finestre, caratterizzati da elementi lapidei posti alternativamente in verticale e in orizzontale o con spalle monolitiche nel caso si tratti di finestre di piccole dimensioni [Montagni, 1993; Tubi et al., 2009]. Proprio la tecnica costruttiva dei portali, è ciò che maggiormente caratterizza queste architetture: la costruzione dell’edificio iniziava dalla posa di questi elementi: le maestranze specializzate posavano le soglie dei portali, costituite da lastre di pietra piuttosto spesse, da 4 a 10 cm, poco sporgenti o a raso muro, che rappresentavano i piani di appoggio resistenti su cui fondare i due stipiti, e disponevano i primi conci dei portali e le pietre dei cantonali; successivamente la manovalanza erigeva la muratura minuta [Garbarino, 2007].
Gli stipiti dei portali sono composti da paramenti, posizionati orizzontalmente, di costa o di piatto, e piedritti, elementi verticali, come negli esempi riportati nelle figure dalla 1 alla 5; l’unico concio passante nella muratura è quello detto chiave – a raso, sporgente o di taglio — e ha il compito di legare l’elemento con il tessuto murario.
La lavorazione dei conci di cantonali e portali delle più antiche architetture è sempre uguale: le pietre erano sgrossate con punteruoli e scalpelli, quindi lavorate con colpi di martellina su tre parti, la faccia a vista e le facce superiore e inferiore, per far combaciare le parti durante l’assemblaggio. La faccia che doveva rimanere nascosta nella muratura era solo sgrossata, in modo da inserirsi nella tessitura muraria e legarsi meglio con la malta [Garbarino, 2007]. Gli elementi non ripropongono misure fisse, ma i rapporti tra i lati minore e maggiore dei portali sono costanti e gli studi di Garbarino hanno messo in luce rispondenze tra le proporzioni dei portali e quelle della sezione aurea. La manifestazione più singolare di questa arte muraria sono i massicci architravi, che conferiscono un senso di solennità e sacralità all’ingresso. Il tipo più frequente è quello monolitico rettilineo, ma vi sono casi con elementi di forma lunata, a timpano o con forma sagomata a piattabanda; sono inoltre diffuse strutture ad arco costituite da un elemento unico o da due o più conci sagomati [Marmori, 1978].
Talvolta sugli architravi sono presenti date e simboli religiosi, incisi o scolpiti in rilievo sulla superficie [3]; tuttavia nella maggior parte dei casi le date, che variano solitamente dal XVI al XIX secolo, non risultano coeve alle primarie costruzioni, ma aggiunte in epoca posteriore, forse in occasione di ristrutturazioni, benedizioni, passaggi di proprietà o altri eventi socialmente rilevanti. Conci scolpiti — a rilievo o incisi — si trovano anche presso i cantonali murari, tra cui le cosiddette mamme longobarde [4], di cui sono riportati esempi nelle figure 6 e 7. Seppur molto rari e difficili da riconoscere, in alcuni borghi con caratteri eulitici sono ancora conservati esempi di teste apotropaiche, sculture a tuttotondo o rilievi raffiguranti volti umani, spesso con espressioni severe o minacciose, come si vede nella figura 8, posizionate in punti strategici degli edifici o dei centri abitati su architravi, conci vicino a portali o finestre, fontane, elementi posti al principio di sentieri [5].
Gli edifici religiosi disseminati lungo le vie e presso gli abitati presentano analoghe caratteristiche, ad eccezione delle costruzioni più recenti. Si tratta di edifici per lo più ad aula unica con aperture di finestre e porte e cantonali similari a quelli descritti [Borsotti e Citi, 1999].
Una origine comune
Sul piano storico [6], l’area in esame risulta inquadrata in epoca romana tra le Regiones VIII e IX, i cui insediamenti urbani più importanti erano per la Regio VIII, Piacenza e Velleia, per la IX Voghera, Tortona e Libarna. Dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, al quale seguirono la riconquista bizantina al termine delle Guerre Gotiche (535-553) e la successiva invasione longobarda — Pavia cadde nel 572 – il territorio divenne teatro di una lunga guerra di frontiera tra i Longobardi e i Bizantini, i quali poterono controllare la costa grazie alla flotta imperiale fino al 643, quando anche la Riviera ligure venne occupata da re Rotari. Durante questa lunga fase di stallo, l’area fu organizzata sul versante bizantino in unità amministrativo-militari dette Fines, la cui eco perdurò nella nomenclatura burocratica genovese fino al secolo XI.
In tale quadro, nel 612 giunse alla corte dei re Agilulfo e Teodolinda San Colombano; tra il monaco irlandese e i reali si instaurò un proficuo clima di dialogo e collaborazione che sfociò, nel 614, nella concessione al santo di un terreno di proprietà demaniale in Bobbio, allo scopo di insediarvi un monastero cattolico; si tratta di un monastero la cui fondazione è di diretta iniziativa regia, senza alcun consulto preventivo con le autorità episcopali o romane. Alla morte di Colombano nel 615, gli succedettero come abati sant’Attala e san Bertulfo, mentre la protezione da parte della corona longobarda nei confronti di Bobbio proseguì e si rafforzò nel corso di tutto il VII e l’VIII secolo, secondo una politica proseguita dall’impero carolingio dopo la caduta del regno longobardo del 774. Addirittura, l’abate Wala (m. 836) fu cugino e consigliere di Carlomagno e di Ludovico il Pio. In epoca altomedievale, Bobbio conobbe una fase di grande sviluppo culturale ed economico.
Nel corso dei primi secoli di vita del monastero, per iniziativa regia e poi imperiale, il patrimonio amministrato dalla comunità colombaniana fu continuamente accresciuto con donazioni anche cospicue di terre, situate in varie parti del Nord Italia, ma principalmente nelle vicinanze di Bobbio e verso la costa ligure. Il ricorso alle competenze monastiche costituì per il regno longobardo un valido supporto per lo stato, le cui vaste proprietà fondiarie di fatto non avevano più conosciuto forme di amministrazione coerente ed efficiente fin dalla caduta di Roma. Alcuni estimi risalenti al IX secolo restituiscono un quadro molto vivido di come doveva presentarsi il territorio, che era organizzato in curtes orbitanti intorno a cellae, di più recente fondazione, dirette filiazioni del monastero bobbiese, a loro volta suddivise in numerose frazioni, ciascuna delle quali deputata ad una specifica tipologia di coltura o di allevamento; tale organizzazione ha lasciato tracce evidenti sia nella toponomastica [7] che nella disposizione stessa dei centri abitati.
Bobbio divenne sede episcopale nel 1014; il crescente dualismo tra le figure dell’abate e del vescovo, insieme al crescente potere economico e militare di comunità urbane quali Genova e Piacenza, portarono alla crisi del sistema curtense e alla perdita di controllo di gran parte dei possedimenti acquisiti da Bobbio nelle fasi iniziali di sviluppo, tanto che nel corso del XIV secolo la stessa città di san Colombano divenne sede di un feudo dei marchesi Malaspina, che vi insediarono un castello e una guarnigione armata. Nel corso dei secoli X-XIII, gli antichi domini bobbiesi, a partire, verosimilmente, dalle aree più distanti, passarono progressivamente sotto il controllo di altre entità politiche, delle quali seguirono le rispettive e peculiari vicende storiche.
Gli studi effettuati sui diplomi longobardi e sulle testimonianze materiali altomedioevali hanno dimostrato quanto l’operato dei monasteri abbia determinato una vera e propria pianificazione urbanistica del territorio, che, pur essendo di grande importanza strategica, poiché attraversato da vie di pellegrinaggio e commercio (e.g. via del Sale, via degli Abati, via Postumia), dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente si presentava in condizioni di forte degrado territoriale ed economico. La realizzazione degli edifici non era avvenuta “spontaneamente”, ma era stata demandata ad artigiani e carpentieri che progettavano secondo un preciso progetto e tecnologie costruttive colte, nonché secondo proporzioni predefinite.
Perpetuazione delle tecniche
Quando le trasformazioni storiche hanno portato al decadimento del piano urbanistico colto alto-medioevale, l’architettura eulitica ha continuato a rappresentare il principale modello costruttivo locale. Architetture rurali di più recente costruzione riprendono le tecniche e in molti casi riutilizzano i materiali delle costruzioni preesistenti. Tuttavia, se all’origine le costruzioni eulitiche erano state realizzate da — o sotto il controllo di — maestranze specializzate, nei secoli successivi gli edifici erano autocostruiti dagli stessi abitanti, che, cercando di riprodurre le tecniche per imitazione, hanno apportato evidenti modifiche.
Nell’architettura spontanea l’individuo che costruiva un edificio agiva sulla base di un’idea astratta, il tipo, presente nella sua “coscienza spontanea”, acquisita attraverso la conoscenza degli altri edifici in cui era stato o che aveva costruito egli stesso [Caniggia e Maffei, 1979; Cinieri e Zamperini 2013]. Nelle Quattro Province si ritrova un patrimonio edificato diffuso marcatamente locale, con rimandi o conservazione delle tecniche costruttive colte alto-medioevali, come evidenziato dagli esempi presentati nelle figure dalla 1 alla 9. Il patrimonio edificato diffuso non è che la trasmissione al presente di una cultura tecnica fondata sulla tradizione [Cinieri e Zamperini, 2013; 2014], ovvero — dal latino tradere — la “memoria di fatti e cose antiche, tramandata da racconti di vecchi a giovani, d’età in età” [www.tommaseobellini.it], dove memoria è la facoltà “per cui l’uomo conserva e ridesta in sé le immagini delle cose viste o sentite e delle idee acquistate” [Palazzi e Folena, 1962]. Con la tradizione si tramanda di generazione in generazione l’intera cultura di un gruppo etnico e le regole, tra cui quelle dell’edificare, si consolidano in “una norma che non può essere messa in discussione, in quanto confortata e resa autorevole dalla continuità delle usanze” [Torsello, 2006].
Una osservazione attenta delle testimonianze materiali e delle tecniche costruttive impiegate permette di riconoscere gli elementi eulitici da quelli che possiamo definire pseudoeulitici, derivanti dall’imitazione delle architetture colte8. La diffusione di forme e tipi ricorrenti in tutto l’Appennino delle Quattro Province connota questo territorio, rappresentando un patrimonio di grande importanza storico-culturale.
Conclusioni
Le prime importanti ricerche sugli edifici in ambito rurale sono state avviate da geografi9 che hanno messo in luce le forme dei sistemi insediativi connesse alle funzioni agricole e alle tipologie di produzione attraverso studi di tipo economico ed etnografico. Fino a circa vent’anni fa, gli studi sugli insediamenti o sulle costruzioni liguri [Marmori, 1978; Montagni 1993] reputavano gli edifici in aree rurali quasi esclusivamente come esempi di architettura locale spontanea, senza mettere in luce particolari relazioni tra ambiti provinciali/regionali diversi. Inoltre, la letteratura sulle tradizioni ed il paesaggio italiani10 non considerava quasi mai i territori del cosiddetto Appennino delle Quattro Province. È stato con i più recenti contributi [Garbarino, 2007; Ferrari et al., 2008; Cinieri, 2011; Ferrari, 2019] che sono state approfondite le conoscenze sulle tecniche costruttive e sul contesto socio-economico e culturale in cui queste sono nate e si sono diffuse.
La ricerca ancora in corso, parzialmente descritta in questo articolo mira a censire beni ed elementi tecnici diffusi nelle Quattro Province, restituendone, tramite fotografie di livello professionale, rilievi e informazioni storiche: una traccia mnemonica colta che possa da un lato lasciare una testimonianza scritta e grafica di un patrimonio di grande importanza tecnico-costruttiva e storica, dall’altro supportare il recupero e la conservazione dei manufatti con interventi che non ne alterino le peculiarità.
Valentina Cinieri e Giacomo A. Turco; fotografie di Giacomo A. Turco
pubblicato anche negli atti dell’VIII Convegno di storia dell’ingegneria, Napoli 2020
Bibliografia
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Note
- L’espressione Quattro Province nasce negli anni Settanta per descrivere un’area con analoghe tradizioni musicali, in particolare per l’uso del piffero, oboe popolare [Ferrari, 2019, p. 11].
- Il termine eulitico è stato usato da Garbarino [2007] per descrivere un’architettura locale catatterizzata da architravi maestosi e grandi blocchi impiegati come stipiti o pietre angolari.
- Sono frequenti le croci (semplice, croce longobarda con il braccio verticale molto allungato, croce vescovile con doppio braccio orizzontale, croce di consacrazione le cui braccia terminano con altrettante croci, la croce sulla sommità di un monte stilizzato, il Crismon), nonché le date e le iniziali; raramente è presente la rosa celtica [Citi, 1995]. Raramente conservati i conci con rilievi di animali o protomi.
- Le mamme longobarde sono semisfere il cui significato è ancora oggetto di studio. Per la forma evocativa di mammelle sono ritenute simboli di fertilità [cfr. Citi, 1995].
- Si pensa ad antiche superstizioni con lo scopo scaramantico di allontanare il Diavolo o altre forze del Male. La presenza di incisioni e rilievi in punti strategici può far supporre una sorta di segnaletica, tuttavia non si dispone di informazioni certe al riguardo.
- Dell’ampia bibliografia in materia in questo paragrafo si fa riferimento soprattutto a Pavoni 1992 e 2018, Tosi 1993 e 1995, Chiappe 1996, Garbarino 2007, Fiori 2015.
- Si pensi a toponimi quali Pecorara, Centopecore, Costa Pecorella, Caprile, Cravarezza, Vaccarezza, Porcile, Pometo, Meleto, Noceto.
- Garbarino, attraverso studi approfonditi anche su casi esteri (Francia, Spagna, Croazia, Grecia, Portogallo), ha elaborato un metodo di datazione cronotipologico. Per il riconoscimento dei manufatti eulitici, egli pone come caratteristica fondamentale il tipo di lavorazione della pietra: le maestranze colte utilizzavano la martellina, di cui sono visibili le tracce sulla superficie dei conci. Dalle caratteristiche degli elementi, lo studioso ha individuato tre tipologie di portali, ovvero tre diversi periodi dell’architettura eulitica: stile Eulitico I, primitivo, Eulitico II, europeo, con l’introduzione della mensola sagomata e dell’arco spezzato, ed Eulitico III, con assenza di chiavi negli stipiti e accenni di decorazione scultorea [Garbarino, 2007, 38-41].
- Si pensi a R. Biasutti e L. Gambi. Dal 1926 Biasutti censì le case rurali, con l’intento di realizzare l’opera il cui primo volume, La casa rurale in Toscana, fu pubblicato nel 1938.
- Cfr. serie Conosci l’Italia, Touring, 1957-1968.
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