Le vicende del battaglione Alpini “Vestone”
“Nel pomeriggio della stessa giornata (12 settembre1944), dall’alta val Trebbia, calava a Bobbio il battaglione alpino «Vestone» al comando del maggiore Paroldo. Veniva a rinforzare gli altri ormai logori nel fisico e nel morale. Insieme col battaglione alpino calavano alcuni reparti tedeschi e l’automezzo fermato a Buffalora ne costituiva l’avanguardia.
Ormai i nazisti, dopo i gravi colpi inferti dalla VII brigata, più non si fidavano degli alpini o per lo meno li ritenevano privi di mordente. Occorreva perciò sorvegliarli da vicino, tanto più che in Bobbio erano apparsi dei volantini che invitavano gli alpini alla defezione. Li avevano scritti gli alpini partigiani per i compagni che ancora stavano dall’altra parte della trincea e noi, o personalmente, o per mezzo di collaboratori civili, li avevamo fatti circolare in città.
Il battaglione «Vestone» nella sua marcia attraverso l’alta val Trebbia, già si era fatto conoscere ed aveva acquistato triste fama. A Montebruno appena fuori dell’abitato aveva lasciato alle sue spalle il cadavere di un alpino appeso a un palo telegrafico. Si trattava di un disertore passato ai partigiani garibaldini e poi ucciso appena catturato. Voleva esser questo un monito severo per quanti ancora tentennassero nel morale e diretto a stroncare il moto di ribellione che già si faceva strada nell’animo delle truppe.
A Gorreto, a Ottone, a Marsaglia e altrove si ebbero altri fatti di crudeltà e di violenza: prelevamento di ostaggi e percosse ai civili. La squadra della VII brigata, che quasi al completo era rimasta in postazione sui contrafforti rocciosi di Buffalora sulla parte sinistra del fiume, vide sfilarsi dinanzi tutto quanto il battaglione «Vestone», ma non aprì il fuoco, data la troppo scarsa disponibilità di munizioni. Fu così che il nemico poté giungere indenne a Bobbio. Qui si chiesero subito notizie dell’automezzo tedesco che aveva preceduto nella mattinata. I tedeschi montarono su tutte le furie e se la presero con gli ufficiali degli alpini, i quali, per evitare il peggio, si diedero a fare ricerche.
Certamente qualche civile al corrente del fatto e spaventato dalle minacce, fu costretto a fare rivelazioni. Sta di fatto che lo stato maggiore del battaglione «Vestone», con forze considerevoli, ritornò sui suoi passi arrestandosi alla curva di Boffalora, il luogo preciso dello scontro.
Il furore dei tedeschi però non si placò e diventò furore anche del Paroldo, che diede subito l’ordine di prelevare quindici ostaggi civili, fra i quali numerose donne; costoro furono rinchiusi in carcere e minacciati di fucilazione, qualora i partigiani non avessero restituito i prigionieri. Questi intanto erano stati trasferiti a San Cristoforo, in località più arretrata, e qui affidati alle cure di due donne, mia madre e mia sorella, mentre il partigiano alpino Cavallo, il solo che conoscesse la lingua tedesca, faceva da interprete.
Quella del maresciallo Miiller era una brutta ferita alla testa: per quanto di striscio, un proiettile gli aveva forato la scatola cranica. Il cervello non era stato offeso, ma il ferito sentiva delle fitte atroci e alternava momenti di lucidità ad altri di deliquio. Il trattamento riservatogli era quanto di meglio potessero offrire i partigiani, ma certamente insufficienti erano le cure. Si rendeva necessario il ricovero in ospedale e questo fu il pensiero che maggiormente mi preoccupò. Nella mattinata del 14 settembre il maggiore Paroldo chiese un incontro, al quale ben volentieri aderii, tanto più che in mani nemiche, oltre agli ostaggi civili, si trovavano prigionieri tre partigiani. Di questi, due erano garibaldini catturati nei dintorni di Marsaglia, dei quali uno (Lupi) era ferito. Il terzo, di nome Prati, era un alpino disertore passato alla VI brigata e poi catturato nella zona del Penice. Per quest’ultimo, specialmente, la sorte era ormai segnata: il triste esempio dell’alpino di Montebruno lo faceva in tutto presagire. Infatti, processato per direttissima in quanto disertore, era già stato condannato a morte mediante fucilazione alla schiena. Non restava che dare l’ordine di esecuzione.
Il colloquio, preparato anche per l’intervento del clero di Bobbio, ebbe luogo in località Brada Marina, a circa un chilometro dalla città, lungo la rotabile del Penice; ad esso presenziarono due sacerdoti (don Balzarini e don Marini). Mi presentai puntuale, senza alcuna scorta e disarmato: la sola coccarda tricolore spiccava sul mio petto all’altezza del cuore e risaltava al sole della giornata radiosa. Il maggiore Paroldo, invece, si fece aspettare qualche tempo e contrariamente ai patti, portò con sé la pistola, per cui si rese necessario l’invito a levarne il caricatore. Nell’incontro si trattò per prima cosa dello scambio dei prigionieri; ottenni che per i due tedeschi mi fossero consegnati i tre partigiani e fossero posti in libertà tutti gli ostaggi civili. Furono stabilite tutte le modalità dello scambio che avrebbe dovuto avere luogo l’indomani, in località San Martino.
Il discorso cadde, quindi, sulla città di Bobbio, della quale chiesi l’evacuazione immediata; sulla situazione generale della guerra in Italia e sulla posizione del tutto particolare nella quale si erano venuti a trovare i reparti alpini della «Monterosa». Prospettai anzi al Paroldo l’opportunità del passaggio suo e dei suoi uomini ai partigiani, con le opportune assicurazioni che in tale caso sarebbe stato loro riservato l’onore di conservare le armi; sarebbero poi stati trattati a parità di diritti con i partigiani.
A questa prospettiva, l’interpellato rispose piuttosto evasivamente; si capiva il suo travaglio interiore: doveva salvare il suo onore di soldato e nello stesso tempo sentiva una grave responsabilità verso i suoi alpini.
La decisione di passare ai partigiani sarà presa solo più tardi, nell’alta val Trebbia; la resa sarà fatta ai garibaldini di Bisagno, ma il germe era già stato gettato nell’incontro della Brada.
Il 15 settembre, approntata una barella su cui adagiare il maresciallo Miiller, con la scorta di alcuni uomini, lasciai San Cristoforo per scendere a San Martino. Questa volta furono però i partigiani che ritardarono all’appuntamento, dato lo stato pessimo delle mulattiere e la necessità di procedere lentamente, per evitare scossoni al ferito. Giunti sul luogo stabilito, dopo aver scambiato il saluto con gli ufficiali nemici e chiesto che si facessero avanti i partigiani prigionieri, vidi dinanzi tre individui più simili a cadaveri che ad esseri pieni di vita.
Le operazioni di scambio ebbero luogo celermente. Commovente e significativo fu il distacco del tenente Folkof, che, rivolto a me, mi fece dono del suo binocolo e cercò di abbozzare un saluto e di irrigidirsi sull’attenti, mentre i suoi occhi luccicavano e le sue membra tremavano, scosse dalla commozione e da un sussulto interiore.
Oramai le file della VII^ brigata si erano ingrossate con l’apporto degli alpini prelevati, che si convertivano in altrettanti partigiani convinti. Anche l’armamento era discreto, grazie alle armi sottratte al nemico. Soltanto il munizionamento era scarso; di qui il severo ordine di non farne spreco e di limitarsi a sparare soltanto in caso di estrema necessità, pena il disarmo immediato. La brigata, forte di oltre cento unità, era stata suddivisa in quattro squadre, al comando rispettivamente di Barba 1°, di Barba 2°, di Castelli e di Mazzucco.
Le prime due costituivano le squadre di punta, in quanto formate dagli elementi più esperti e temerari; non avevano una sede fissa ed operavano nelle immediate vicinanze di Bobbio, costituendo intorno al nemico uno stretto semicerchio da Buffalora-Cerpiano-Colletta a Mazzucca-Caborelli. Le rimanenti squadre si trovavano su posizioni più arretrate e avevano compiti di rincalzo e di rifornimento: quelle di Mazzucca a Lagobisione-Degara, quelle di Castelli nella zona di Mezzano Scotti fino all’orrido di Barberino.”
Italo Londei
(Articolo tratto dal N° 2 del 20/01/2022 del settimanale “La Trebbia”)
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