«Ti mostrerei cose indimenticabili, degne di un poeta come te». Accompagna anche nei luoghi di elezione dei due poeti il “Carteggio 1947 – 1983” di Giorgio Caproni e Vittorio Sereni, a cura di Giuliana Di Febo-Severo, pubblicato nella collana Officina dell’Istituto di studi italiani dell’Università della Svizzera italiana, per i tipi Olschki. Le “cose indimenticabili” e “degne di un poeta”, oggetto dell’invito rivolto in una lettera del 17 luglio 1947 da Caproni all’amico Sereni («Che ne pensi se ti dicessi di fare una scappata in tale città che non conosci?») conducono infatti sia a Genova, sia soprattutto «in una zona alle spalle di Genova che non conosce nessuno e dove vivono ancora i longobardi. Una zona che non è né ligure né lombarda né emiliana (geograficamente comprende il punto d’innesto delle tre province) e che merita d’essere vista per i suoi monti rossi come il lampone o verdi come il verderame, dove nasce gelida la Trebbia». Lì a Rovegno, al 54esimo chilometro della statale 45 tra Genova e Piacenza, altrove rievocato come «un adorabile paesino montano», Caproni aveva cominciato a 23 anni la sua carriera di maestro elementare, che non abbandonò mai, cambiando diverse sedi, per cercare di far fronte alle necessità economiche della famiglia. In alta Valtrebbia perse la fidanzata Olga, morta di setticemia nel 1936 alla vigilia della nozze, ma nel vuoto del dolore trovò poi l’amore di una ragazza di Loco di Rovegno, Rina Rettagliata, sposata nella chiesina della frazione nell’agosto del 1938. Aveva appena pubblicato la seconda plaquette, “Ballo a Fontanigorda”, stabilendo con la valle un legame d’affetto rinnovato da allora in poi ogni estate, trascorsa nella vivificante asprezza dell’Appennino. Nato a Livorno il 7 gennaio 1912, quasi coetaneo di Sereni (classe 1913), Caproni si era trasferito da bambino a Genova e, pur avendo nel secondo dopoguerra vissuto in prevalenza a Roma maturando sentimenti ambivalenti nei confronti della capitale, era in Liguria che sentiva di avere più radici, salendo dal mare fin sulle montagne dove i confini tra una regione e l’altra sfumano. In Alta Valtrebbia si era unito ai partigiani dopo l’8 settembre 1943, un’altra esperienza fondamentale per lui e la sua generazione. Il volume, corredato da un ampio saggio introduttivo, dal titolo-citazione: “La poesia è sempre un rimedio”, dove vengono messi a fuoco gli argomenti principali del dialogo a distanza tra i due grandi poeti del Novecento, permette di addentrarsi nei tempi e modi della loro attività, per entrambi segnata da momenti di stasi accanto ai periodi di felicità creativa, da scambi fecondi, da interessi culturali comuni, dalla condivisione delle ferite inferte da un conflitto che li aveva visti al fronte (Sereni subì anche il trauma dei campi di prigionia), ma soprattutto erano cresciuti sotto una dittatura, nei cosiddetti anni del consenso, trovando nello scrivere “in versi” possibili accenti di libertà e di riscatto. Nella missiva del 17 luglio 1947 Caproni raccontava della sua casa «da contadini, dove contadinescamente, senza carne o altre leccornie, potrei ospitarvi due o tre o quattro giorni fuori dal consorzio umano, non arrivandovi che la corriera sulla strada napoleonica Genova Piacenza Milano».
Anna Anselmi
Il poeta riposa a Loco di Rovegno accanto alla moglie Rina
A proposito dei luoghi “di appartenenza”, che sia per Giorgio Caproni sia per Vittorio Sereni (nato a Luino, sul Lago Maggiore, vissuto tra Brescia e Milano) sono molteplici, e dei luoghi “di elezione”, Giuliana Di Febo-Severo, curatrice del volume del “Carteggio 1947-1983” (Olschki), si sofferma sull’importanza imprescindibile di Loco di Rovegno, oggi Loco Caproni, dove il poeta “livornese di Genova” volle essere sepolto, accanto alla moglie, morta nel 1993. Più in generale è l’alta Valtrebbia a “essere rievocata in gran parte” dell’opera di Caproni, “in poesia e in prosa”, sottolinea la ricercatrice, assistente dottoranda all’Università della Svizzera Italiana, in cotutela con la Sorbona, e attualmente impegnata su un’inedita traduzione realizzata da Caproni a partire da un testo giovanile di Gustave Flaubert. La traduzione del francese è un altro interesse condiviso da Sereni e da Caproni, che della Valtrebbia (di cui in versi aveva cantato l’“aria fina”) amava la natura e l’architettura “un po’ dialettale dei capimastri”. In un racconto descriveva la Valtrebbia come “una strana zona di sassi sanguigni e d’erbe verdissime, nonché di bellissima gente che conserva ancora nelle vene globuli longobardi e irlandesi”. Nel suo girovagare da una cattedra all’altra come maestro, era capitato a Casorate Primo, tra Pavia e Binasco. Gli era rimasta impressa la quiete della campagna padana: “Avrei tanto desiderato – scriveva a Sereni – di vivere in una piccola città lombarda, con la nebbia lieve intorno ai lampioni, col silenzio delle acque e due o tre amici”.
(Articolo tratto dal N° 6 del 18/02/2021 del settimanale “La Trebbia”)
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