“Animali ” e “selvatici”, sicuramente le maschere più arcaiche del mondo contadino, erano protagonisti anche dei carnevali delle valli delle Quattro Province, talvolta anche fino a tempi recenti.
Ad Alpe di Gorreto, in val Terenzone, era presente “una maschera con le corna”, un “diavolo” dagli atteggiamenti aggressivi. La maschera del diavolo, insieme o in alternativa a quella dell’orso, faceva la sua comparsa anche nel carnevale di Pentema, borgo arroccato alle falde meridionali del massiccio dell’Antola.
Giorgio Traverso riferisce anche della maschera del vecchio, che faceva la sua comparsa anche al carnevale di Pentema, con il suo incedere traballante evocativo la precarietà della condizione umana. La maschera del diavolo era invece presenza abituale, come vedremo, nei carnevali della val d’Aveto e della val Nure.
Fino agli anni Quaranta-Cinquanta aveva luogo nei paesi della media val Staffora un rito che aveva al suo centro la maschera dell’orso, in questo caso fabbricata con le foglie delle pannocchie (gravizén) e con l’aggiunta di piume di gallina.
Sempre in val Stàffora, a Cignòlo, ci è riferita da Roberto Ferrari una mascherata che aveva luogo negli anni Quaranta-Cinquanta e che sembra riproporre la diffusissima opposizione tra gruppi di maschere conflittuali. Alcune persone vestite “da signori” entravano in paese su di un carro trainato da buoi, in funzione di calesse, e venivano attaccati da maschere con corna e forcone che incornavano il carro e inseguivano i “signori”.
Maschere caprine sono ricordate dalia signora Maria Caterina Daglia di Fego, in val Staffora.
A Garbagna, in val Grue, come vedremo, faceva la sua comparsa la maschera del cavallo, assai diffusa nei carnevali arcaici.
A Piancereto, in val Borbera, una benna faceva il giro delle case a raccogliere uova, trainata da un mulo cui si erano fatte indossare lunghe mutande di lana. In questo caso l’antropomorfizzazione dell’animale assolve al ruolo delle numerose maschere di asini e cavalli, tra i più arcaici protagonisti di riti carnevaleschi.
Da Piuzzo, in val Borbera, secondo quanto riferisce Livio Raddavero dai racconti del padre, una comitiva girava i paesi, e tra questi c’era anche una maschera raffigurante una figura animalesca, con due corna dì bue, che scorrazzava per le vìe con indosso un giogo. Lo stesso episodio è ricordato da Ivo Burrone di Cosola che riferisce che la maschera cornuta “si buttava per terra e gli altri gli saltavano intorno”.
La maschera animale aggiogata, così come l’orso della val Staffora precedentemente ricordato, non può non farci pensare agli antichissimi riti di cattura e addomesticamento di una maschera di animale o di “selvatico”, come quello che ancora viene rappresentato a Urbiano di Mompantero, in val di Susa (Torino) dove è la maschera dell’orso ad essere stanata da alcuni cacciatori, condotta per le vie del paese tra scatti di furia ferina e percosse, quindi addomesticata attraverso il ballo sulla pubblica piazza davanti alla comunità riunita. Se la maschera animale e il diavolo simboleggiavano lo spirito selvatico e trasgressivo del carnevale (si tenga presente che la figura del diavolo nella cultura popolare è assai distante da quella personificazione del male assoluto propria della religione cristiana), assai ricorrente era anche il travestimento da prete. Se ne ricorda la comparsa durante un carnevale a Cosola, lo scompiglio divertito provocato dai suoi balli sfrenati, come pure le parole di biasimo e condanna pronunciate dal parroco (quello vero) nell’omelia del giorno dopo.
Anche in val Nure si ricorda la presenza della maschera del prete, accanto a quella del medico, altra figura soggetto frequente dell'”abbassamento” carnevalesco.
Che la figura del prete costituisse un soggetto particolarmente gustoso e significativo di mascheramento carnevalesco è facilmente comprensibile visto il rapporto quasi sempre conflittuale tra questa ritualità in odor di paganesimo e i ministri del culto cristiano.
L’ostilità del prete si inaspriva particolarmente quando la festa conquistava i territori del tempo quaresimale, come avveniva a Cosola dove era uso festeggiare la “pentolaccia” la prima domenica di Quaresima. Una delle ultime volte il parroco si lanciò in invettive particolarmente accese, e il paese si divise tra chi era propenso a mostrarsi tollerante e chi invece gridava allo scandalo.
Ancora più difficile pare fosse il rapporto tra il desiderio di festa dei montanari e il rappresentante del culto nel vicino borgo di Daglio.
Ancora più decisa e diretta l’azione di contrasto posta in atto dal parroco dì San Sebastiano Curone che sembra fosse uso, la mezzanotte del martedì grasso, mandare una persona munita di scopa a cacciare a casa la gente che indugiava sul ballo nonostante l’incipiente Quaresima. Atto che per altro sembra ben prestarsi alla logica paradossale del carnevale e ad essere assunto all’interno della sua scena simbolica.
La grottesca maschera, oltre a scuotere fragorosamente il campanaccio che porta al collo, sembra avesse l’abitudine di insinuare lo specchio sotto le gonne delle donne, gesto che rimanda a quel sistema di atti fecondativi che sono propri dei rituali agresti in parte confluiti nel carnevale, ma al contempo non può non suggerire ghiotte riflessioni che rimandano alla sfera della psicologia del profondo.
Nel gruppo di maschere di Predaglia (Pragaia), che anche quest’anno ha compiuto il suo itinerario rituale, dalla domenica al martedì grasso, visitando i borghi dell’alta val Curone, sono ancora presenti, accanto ai consueti travestimenti “moderni”, segni e simboli della tradizione carnevalesca più arcaica, come la “donna” o “vecchia” con un finto bambino, il falso prete o frate, il portatore di vino che viaggia di conserva con una maschera con appeso al collo un enorme cavatappi e un sacchetto pieno di aringhe salate, nella funzione di suscitatore di sete che già fu di Pantagruel, il diavoletto che nel Mystère desActes des Apòtres (sec. XV) gettava sale in bocca agli ubriachi addormentati, e ispirò Rabelais per il suo capolavoro denso di simboli ed atmosfere carnevalesche.
Il mascheramento più diffuso consisteva nell’uso di abiti vecchi o nell’inversione di abiti che rimanda alle dinamiche di rovesciamento dei ruoli proprie della logica carnevalesca. I bambini portavano per lo più maschere di cartone o si imbrattavano di fuliggine il viso per rendersi irriconoscibili, ma evocando al contempo l’identificazione con le anime dei morti che gli studiosi del carnevale riconoscono pressoché unanimemente nelle figure di questuanti che s’aggirano per i paesi in tempo di carnevale, ovvero in corrispondenza di uno dei varchi calendariali sul mondo ultra terreno. Ragazzi con i volti anneriti dalla fuliggine erano protagonisti anche delle questue di uova per i paesi della valle del Besante, affluente di destra del Borbera.
L’inversione di abito era pratica di travestimento carnevalesco anche a Pentema, dove il carnevale tradizionale, che vedeva protagonisti di tutte le età, si protrasse fino alla metà degli anni Sessanta. Lo stesso accadeva al Connio di Carrega dove i maschi si vestivano da femmine e viceversa, si tingevano il viso di fuliggine e giravano con campanacci per le case del paese, pratica ricordata anche nel vicino borgo di Cartasegna.
A Cosola si ricorda l’irruzione in una festa carnevalesca, prevalentemente di bambini, di maschere di adulti travestiti da donne e col viso annerito da caligine, provenienti da Cabella. Il passaggio dello spirito del carnevale dagli adulti ai bambini o ragazzini è avvenuto in luoghi diversi in tempi diversi, ed ha sicuramente corrisposto ad una defunzionalizzazione o caduta di intensità rituale della festa,
L'”infantilizzazione” dei carnevale è andata di pari passo con una sua istituzionalizzazione, ovvero con il passaggio dell’organizzazione della festa nelle mani del maestro o del prete. Ad esempio, le “mascherate”, di cui si dirà più oltre, un tempo organizzate e messe in scena da persone di ogni età, si sono estinte lasciando talvolta il “relitto culturale” della recita scolastica avente per protagonisti ì bambini. È evidente che ben poco dello spirito grottesco e trasgressivo del carnevale poteva sopravvivere all’interno di una siffatta formalizzazione istituzionale.
Va detto però che i bambini continuarono a portare dì casa in casa, per le vie innevate dei paesi, lo spirito “visitante” dei carnevale.
A Cosola, subito dopo l’Epifania si apriva il tempo delle maschere bambine che tutte le sere, escluso il venerdì, giravano le case dove si sapevano bene accette ricevendo qualche confetto o caramella. Un foulard o una rudimentale maschera di cartone o ricavata dalla copertina di un quaderno usato garantivano l’anonimato. Nelle case più ospitali ci si prodigava a far ballate i mascri con alcune strofette che i bambini gradivano molto: “Una freìza d’ai, l’altra àd fazò / Per fa ballar ‘stì cagajó’ / Ma sunei un pò pù zgagià / E fei balà stì cu merdà“. (“Una fresa d’aglio, l’altra di fagioli / Per far ballare questi cagoni / Ma suonate un po’ più in fretta / E fate ballare questi culi merdosi”). C’era anche una versione più edulcorata della filastrocca che suonava così: “Una freiza d’ai, l’altra ad fazò” / Per fa ballar sti povri fiò / E sunei un pò pu zgagià / Almen i van a cà “. (“Una fresa d’aglio, l’altra di fagioli/ Per far ballare questi poveri bambini/ Ma suonate un po’ più in fretta/ Almeno se ne vanno a casa”).
Il carnevale è ricordato anche come l’occasione in cui le ragazze più giovani provavano per la prima volta a ballare, coinvolte dalle “maschere” più grandi d’età. Lo spirito “giovanile” del carnevale era sottolineato da un’altra filastrocca che diceva: “Viva u carluvà che ei vege i a fa scapà e i zune i a fa balà “.
In val Sisola, i bambini mascherati con vestiti vecchi, andavano per le case a recitare poesie imparate a scuola ricevendo in cambio la consueta offerta di uova. In val Sisola si ricorda anche una particolare forma di questua, non confinata al tempo carnevalesco e dai risvolti, per così dire, utilitaristici. I ragazzi andavano a catturare la volpe e la rinchiudevano in una cassetta girando per le case a chiedere uova, a compenso per la cattura del nocivo predatore.
I gruppi di maschere composti da giovani o uomini in età adulta giravano non solo per le case del proprio paese, ma si recavano in visita anche a borghi vicini pernottando talvolta-in osterie o rifugi improvvisati. Il carnevale si configurava quindi come un tempo durante il quale i confini comunitari, già usualmente aperti a commerci e scambi lavorativi o conviviali, attenuavano ulteriormente il loro segno delimitante assumendo quello opposto di margini di transito e comunicazione sociale. La visita dei gruppi di maschere di paese in paese, proprio perché priva di alcuna funzione se non quella rituale, e sostanziata dalla categoria dissipatrice del divertimento, stabiliva il contatto più intimo tra diversi gruppi sociali che condividevano territori limitrofi. E non di rado attivava meccanismi di censura collettiva, così che le maschere, cioè i portatori del messaggio comunitario del carnevale, venivano talvolta considerate figure “diverse” e “poco raccomandabili”.
A Mongiardino, fino agli anni Sessanta, i ragazzi giravano le dodici frazioni e ad ognuna dì esse si aggiungevano altri gruppi, tutti vestiti in modi fantasiosi. Si bussava alle porte, specialmente di quelle famiglie da cut ci sì aspettava una migliore accoglienza, per chiedere uova e ospitalità. Le uova venivano poi portate alla trattoria Morando “da Maxettu’, dove la signora Tina Calano le utilizzava per confezionare le torte per la domenica della pentolaccia.
In tempi più remoti, lo spirito visitante del Carlevà era a Mongiardino espresso da questa filastrocca dove fa la sua comparsa un’accoppiata strumentale inusuale per la zona delle Quattro Province e un non meno misterioso personaggio:
A Carlevà è passou u Teexin / Cun a muza e er vìulin / E u s’è missu a cantà / Viva viva u Carlevà.
Generalmente escluse dalla celebrazione attiva ed esplicita del carnevale, le donne erano invece protagoniste al pari degli uomini di molti carnevali delle Quattro Province. Secondo quanto racconta Antonio Balestrasse Ninin, ad Alpe di Gorreto, in val Terenzone, le donne partecipavano attivamente al carnevale. Esse impersonavano le maschere dei “belli”, mentre gli uomini vestivano da “brutti”, ovvero con abiti laceri e disordinati anziché costumi eleganti e vezzosi come quelli indossati dalle controparti.
Osserviamo che la contrapposizione dì gruppi dì “belli” e “brutti” è ancora oggi, in varie modalità, assai frequente nei carnevali alpini più conservativi come, ad esempio, quelli dì Schignano (Como) e Bagolino (Bergamo).
Ad essa può ricondursi anche la contrapposizione tra “arlecchini” e “brutti” al carnevale di Cegni, anche se in quest’ultimo le maschere dei “brutti” sembrerebbero identificarsi con la coppia nuziale e con il suo seguito parentale. Nella zona delle Quattro Province ritroviamo questa modalità rituale nella piacentina val Nure.
A Belnome, in val Boreca, come pure a Negruzzo, ìn val Staffora, i bambini indossavano gli abiti dei genitori o dei nonni e questo sembra rimandare ad un’inversione di ruoli sulla polarità infanzia-età adulta, tema anch’esso tipicamente carnevalesco.
Maschere lignee raffiguranti l’effige di teste di animali o di personaggi noti della zona sono ricordate per il paese di Casoni nel citato scritto di Ferretti.
Oltre ai ravioli, piatto festivo e carnevalesco per eccellenza diffuso in molti paesi, il giro di questua era sempre finalizzato alla preparazione dì un cibo rituale, il più delle volte un’enorme frittata, come ad Alpe dove il pasto carnevalesco avveniva la domenica grassa (“domenica della pignatta”), ma non mancavano varianti gastronomiche, come a Belnome, dove, come si è visto, lo scopo era raccogliere gli ingredienti per un pantagruelico risotto, probabile lascito dei periodi di lavoro stagionale nelle risaie padane.
A Caldirola si cucinava il bro d carvò, la prima domenica di Quaresima, un brodo “collettivo” a base di fagioli, salamini e qualche cotica. L’usanza è stata conservata fino ad oggi. A Bruggi gli uomini giravano per il paese, indossando vestiti vecchi e con il volto annerito dalla fuliggine. Il vino veniva versato in un vaso da notte (naturalmente pulito), e bevuto in abbondanza coerentemente con la logica carnevalesca di inversione dì norme e funzioni della vita quotidiana e dei suoi oggetti.
La presenza dei suonatori nei giorni del carnevale non era scontata e dipendeva da vari fattori, prima dì tutto quello economico. Spesso i suonatori viaggiavano di paese in paese fermandosi anche per alcuni giorni a seconda dell’accoglienza e del trattamento economico che trovavano, oppure venivano prelevati a domicilio, magari con l’ausilio del più diffuso mezzo di trasporto dell’epoca, ovvero l’onnipresente mulo.
Anche nella bassa val Curone, a Cusinasco e nelle frazioni di Valmaia, Fissano, Ville e Poggio, si svolgeva il giro dì questua carnevalesca che aveva come protagonisti e promotori cinque o sei ragazzi che raccoglievano farina di mais e vino. Da quanto racconta monsignor Angelo Bassi di Cusinasco, attuale parroco di Gremiasco, entravano a far parte di questa piccola congrega i ragazzi che compivano i 15 o 16 anni d’età. I ragazzi portavano alle persone anziane e ai malati la polenta raccolta. L’indomani era la volta dei pasto collettivo, a Cusinasco o alle Ville, dove sì cucinava in piazza una grande polenta e si arrostiva qualche salammo su di un treppiede di pali.
Monsignor Bassi ricorda la partecipazione eccezionale dei muzetta Carlón o Carlinén (Carlo Agosti, piffero) e Carlaja (Carlo Musso, musa) che si fermarono per ben dieci giorni.
Lo stesso Bassi ci ha riferito del carnevale dì Gremiasco, nella media val Curone, durante il quale i ragazzi si travestivano e annerivano il viso e giravano le case cantando canzoni che il religioso ricorda come appartenenti principalmente al repertorio della I guerra mondiale, come La tradotta che parte da Tortona. La festa sì concludeva con un grande ballo cui prendeva parte tutto il paese. Un analogo itinerario di questua, durante il quale si raccoglievano uova e farina, partiva da Casasco e raggiungeva le vicine frazioni, come Poggio, Case Simone, Magrassi e Scrimignano. Le maschere indossavano vestiti vecchi imbrattati di verde rame, e tra esse faceva la sua comparsa, secondo quanto riferitoci dal fisarmonicista Osvaldo Morgavi Grizéi, una figura con denti di legno che risultava particolarmente terrifica.
Paolo Ferrari
(Brano tratto da “Chi nasce mulo bisogna che tira calci” di Paolo Ferrari, Claudio Gnoli, Zulema Negro, Fabio Paveto)
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