Anche nell’area delle Quattro Province, come in molte altre località, nel periodo di carnevale aveva luogo la “mascherata”, intesa come una sorta di “recita”, una forma dì “drammaturgia popolare” che poteva configurarsi talvolta in modalità solenni e drammatiche o, più frequentemente, assumere i caratteri farseschi conformi allo spirito carnevalesco.
I ricercatori della Regione Lombardia hanno studiato, a metà degli anni Ottanta, le drammatizzazioni di antiche canzoni lìrico-narrative che si svolgevano nell’area del Brallo, principalmente a Feligara e Colleri, fino agli anni Cinquanta. La ricerca di Luisa Del Giudice ha documentato in particolare il ruolo delle sorelle Tagliani, pregiate canterine depositarie di un vastissimo patrimonio di ballate.
Proprio in virtù delle loro doti canore e drammaturgiche, le Tagliani avrebbero ad un certo momento soppiantato gli uomini nelle parti principali della recita. Il fenomeno del ballad theater del Brallo è posto dalla studiosa in relazione con analoghi eventi folclorici dell’area italica, europea ed extra-europea. La nostra ricognizione non ha portato alla luce fenomeni analoghi di drammaturgia popolare, nelle altre valli delle Quattro Province.
Esìli anche le tracce di rappresentazioni a soggetto epico-cavalleresco, assai diffuse nell’area dell’Appennino modenese e toscano. Il signor Luigi Guerrini del Connio di Carrega nell’alta val Borbera ci ha riferito della messa in scena del Guerìn Meschino, intorno agli anni Venti-Trenta, nei paesi di Connio, Carrega e Magìoncalda.
La mascherata avente come soggetto un episodio emblematico di vita contadina, trasfigurato nelle forme proprie del grottesco carnevalesco, era invece assai diffusa. A questa categoria vanno ricondotti gli episodi già menzionati a proposito dei carnevali della piacentina Val Nure.
Livio Raddavero di Piuzzo riferisce di aver assistito negli anni Cinquanta alla mascherata di Martino e Marianna inscenata da abitanti di Piuzzo più di una volta in occasione del carnevale. In particolare, Livio Raddavero riferisce di due ragazze che impersonavano sia la parte femminile che quella maschile, le signore Marina Basso e Lidia Raddavero. Quest’ultima portava il cappellino di paglia oggetto del contenzioso. Le ragazze inscenavano il seguente diffusissimo contrasto davanti alle case del paese, ricevendo in cambio l’offerta di alcune uova.
A Garbagna, in val Grue, la mascherata aveva negli ultimi anni – ovvero alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso — assunto il carattere di una competizione tra vari soggetti di “drammaturgia popolare”, ma, a quanto riferito da Gianni Rovelli, la mascherata del nonno Giovanni Rovelli (Giuanén de e Scabbie) si aggiudicava sempre il primo premio. Giovanni Rovelli ideava ogni anno un soggetto differente per la rappresentazione di carnevale e inoltre confezionava di sua mano i costumi, alcuni molto elaborati.
Per la mascherata intitolata Gli schiavisti, Rovelli aveva fabbricato una giacca cucendo insieme foglie di granturco. E non era questo l’unico indumento carnevalesco che Rovelli ricavava da elementi vegetali, secondo una prassi assai comune nei carnevali arcaici, evocativa delle consuete figure di “selvatici”.
Oltre ai soggetti delle sceneggiate, Giovanni Rovelli era anche autore di vari testi letterari che attendono di essere studiati come esempio di letteratura popolare semi-colta dotata di un proprio specifico valore culturale. Il discorso vale naturalmente per tutti quei libretti o foglietti, con i testi delle varie mascherate, di cui sovente si sente parlare come dì qualcosa che c’era e non c’è più, bruciati o mangiati dai topi, ma forse spesso solo in attesa di essere tirati fuori da qualche cassetto o soffitta.
Gianni Rovelli, nipote dì Giovanni, riferisce di una mascherata in cui faceva la sua comparsa la maschera dei cavallo impersonata da due uomini.
Il gruppo di maschere girava per i paesi della contrada di Garbagna, al seguito del fìnto cavallo. Erano presenti anche carri carnevaleschi. La domenica e il lunedì grassi si faceva il giro delle frazioni e si raccoglievano uova e farina con cui confezionare i farsò. Si ballava la giga sul suono dell’armonica a bocca dello stesso Giovanni Rovelli che eseguiva un repertorio tradizionale “da piffero”. Il martedì grasso si bruciava in piazza il pupazzo del carnevale (pajazu) tra espressioni drammatiche dì sconforto per la fine del periodo carnevalesco e l’inizio della Quaresima. Accanto alle mascherate a tema, come quella già citata degli “schiavisti”, non mancavano a Garbagna maschere più arcaiche, come quelle documentate dalle foto forniteci da Gianni Rovelli, che sembrerebbero ritrarre la consueta contrapposizione carnevalesca tra la maschera del “bello” (impersonata dallo stesso Rovelli) e quella del “brutto”, nonché l’esecuzione a tre del ballo della Povera donna. Talvolta Giovanni Rovelli introduceva all’interno della mascherata temi di carattere storico, come i testi dedicati ai caduti della Grande guerra e all’Antifascismo.
Remo Sorlino ci ha raccontato di una mascherata svoltasi a Vigo, in val Borbera, nella prima metà degli anni Trenta del secolo scorso. La mascherata era chiamata “Il bovo” (nome di cui non siamo riusciti a chiarire il senso) e il signor Sorlino ricorda la partecipazione di maschere di carabinieri e di una regina, e la simulazione alquanto realistica di combattimenti con sciabole di legno che, a quanto riferito, lasciavano tracce di sangue vero. Secondo il signor Sorlino si trattò della “più bella mascherata mai eseguita in val Borbera” e fece scalpore in tutti i paesi. Anche in questo caso esisteva un canovaccio, oggi, a quanto sembra, scomparso.
A Gremiasco, nella bassa val Curone, i ragazzi organizzavano scenette con dialoghi comici e parodistici, ad esempio sul matrimonio (la cui parodizzazione è tema carnevalesco costante), e facevano il giro delle case arrivando anche in canonica, accolti con grande affabilità dal parroco monsignor Bassi, cui dobbiamo questa informazione.
Piccole sceneggiate venivano eseguite dai gruppi di maschere che giravano le case e le vie del paese ai Casoni di Fontanigorda.
Ettore Ratto, di Dova Superiore, ricorda di aver assistito a due mascherate di questo tipo alla fine degli anni Trenta, ma riferisce che ad inscenarle non era gente di Dova, ma proveniente da altri paesi, Piuzzo o Vallenzona. L’arrivo del gruppo dei mascui che avrebbe dato vita alla mascherata era annunciato dal suono di un corno di mucca o caprone, lo stesso utilizzato per radunare le capre quando le si portava al pascolo o gli uomini che si trovavano per svolgere i lavori comunitari di manutenzione delle mulattiere o delle fontane.
La mascherata veniva eseguita anche da gruppi di Dova Superiore, i quali, a seconda della durata della rappresentazione, andavano poi a far visita anche ad altri paesi vicini, come Dova Inferiore o Cerendero. Ad essa, secondo quanto riferisce Ettore Ratto, prendevano parte sia ragazzi che “uomini di sessant’anni”.
La mascherata era seguita da una seconda scena denominata farsa che ha tutte le caratteristiche di quegli episodi tipici dei carnevali tradizionali nei quali viene parodizzato un lavoro. Nella scena ricordata da Ettore Ratto la rappresentazione di un lavoro in chiave grottesca sfocia nella diffusissima simulazione di una malattia con guarigione paradossale da parte di un caricaturale medico.
Vi troviamo traccia del concetto bachtiniano di “basso corporeo” e del tema liberatorio e rigenerante della guarigione-resurrezione di una figura satura di ventosità quale il medioevale Re di carnevale.
Intorno ai figuranti impegnati nella recita c’erano, come si è detto, arcaiche figure vestite di pelli di capra e cariche dì campanacci, che chiedevano le uova o davano da bere. Ratto ricorda anche maschere che portavano cappelli larghi con liste di carta che pendevano. Reminiscenze degli “arlecchini” presenti ancora oggi al carnevale di Cegni? Al ballo con le inquietanti figure mascherate prendevano parte volentieri le giovani del paese, sfidando le condanne del parroco che a Dova sembra fosse particolarmente avverso ai festeggiamenti carnevaleschi.
Il rapporto tra il rappresentante del clero e le varie forme di festività popolare poteva oscillare da un atteggiamento di complice tolleranza alla più recisa condanna. Come si è detto, la maschera del prete finiva spesso per divenire protagonista di una rappresentazione carnevalesca dagli accenti sicuramente parodistici, ma non necessariamente dissacranti nel senso più proprio del termine. Il carnevale tradizionale, infatti, nella sua logica di abbassamento di tutto ciò che è solenne e distante dalla misura umana, assume i simboli del potere all’interno di una visione naturalistica, realistica e disincantata che nasce dalla più immediata esperienza umana: quella del popolo che si misura con i bisogni della quotidianità e ad essi riduce ogni forma dì enfasi e prestìgio carismatico. Questo “abbassamento” – per usare la già evocata categoria bachtiniana — non è però un movimento di negazione dì valore, ma al contrario porta in evidenza gli elementi vitali terragni, dai quali scaturisce la fertilità che è condizione e fondamento dell’esistenza naturale e culturale dell’uomo contadino.
Paolo Ferrari
(Brano tratto da “Chi nasce mulo bisogna che tira calci” di Paolo Ferrari, Claudio Gnoli, Zulema Negro, Fabio Paveto)
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