Il ferito aveva rivelato alla dottoressa la tattica delle «buche». Fu una delle più originali intuizioni di Bisagno, che contribuirà decisivamente alla vittoria contro il rastrellamento d’inverno.
Fin dai primi di novembre Bisagno aveva previsto che un nuovo rastrellamento sarebbe stato inevitabile: era facile prevederlo lungo e più duro di quello dell’estate precedente. Questa volta non si sarebbe potuto contare sulla copertura dei boschi. C’era in più un altro pericolo mortale: il gelo, il freddo, che già a novembre del ’44 era rigido.
Bisagno non si lasciò sorprendere. L’obiettivo del nemico era distruggere le formazioni. Bisognava dunque provvedere innanzitutto a salvaguardarle in vista dell’offensiva di primavera per l’attesa liberazione.
Le decisioni furono precise:
- Chiudere il reclutamento per evitare d’infoltire i distaccamenti con uomini non ancora abituati alla guerriglia.
- Smobilitare le Sap di vallata, i cui uomini potevano trovare rifugio e occultarsi nelle proprie case.
- I commissari dovevano illustrare agli uomini la situazione nella luce peggiore: coloro che non si fossero sentiti d’affrontare l’inverno in montagna con poco cibo, al freddo, rastrellati dai nazifascisti, sarebbero stati liberi d’andarsene entro pochi giorni.
Pochissimi si ritirarono: non più di due decine.
Il nemico intendeva disperdere le formazioni, rioccupare le valli, che avevano sì occupato durante il rastrellamento estivo, ma poi abbandonate, lasciando in balia degli attacchi dei ribelli le vie di comunicazione e le ferrovie ai margini dello Stato partigiano.
Il contropiano di Bisagno non si poneva l’obiettivo di respingere sempre e ovunque il nemico, ma di evitare l’agganciamento per poi riprendere le posizioni e appena possibile rioccupare le vallate con il minor numero di perdite. Questi due risultati dovevano essere l’obiettivo principale e avrebbero costituito – come costituirono – il fallimento della manovra nemica.
Era un piano di difesa elastico valido per contrastare l’avanzata del nemico durante il tempo necessario a coprire il fianco e le spalle delle formazioni vicine, per poi ritirarsi con sufficienti prospettive di salvezza.
Di qui la tattica delle «buche» di cui aveva parlato il ferito alla dottoressa. Dopo il primo urto, dopo un giorno o due di combattimenti, al massimo tre, le formazioni «dovevano sparire». Poiché l’eventualità di aggirare il nemico per scendere in pianura era prevedibile solo per piccoli nuclei isolati, occorreva sparire sottoterra.
Ogni brigata doveva avere il proprio settore d’occultamento da dividere in sottosettori per ogni distaccamento. Ogni distaccamento, che era composto di 40-60 uomini, a sua volta doveva dividersi in gruppi da un minimo di 2 a un massimo di 5 uomini, i quali separatamente, in tempi diversi, ciascun gruppo all’insaputa dell’altro, dovevano prepararsi fra le rocce, negli alvei dei ruscelli, negli anfratti e nei luoghi impervi, una vera e propria tana, nella quale rifugiarsi non appena deciso l’occultamento. Questi nascondigli furono subito chiamati «buche», sebbene non fossero effettivamente scavati sotto terra come quelli delle talpe.
Una ingente quantità di gallette di tipo militare venne preallestita nei forni della Val Borbera e dell’alta Val Trebbia. Molti recipienti vennero impiegati per costituire riserve minime d’acqua per 6-8 giorni. Alcuni rifugi peraltro disponevano dello scorrimento nell’immediata vicinanza, quando non nel medesimo anfratto, di rigagnoli o sorgenti.
L’operazione «buche» fu condotta con estrema segretezza. La popolazione non ne seppe nulla. Nemmeno i comandanti conoscevano l’ubicazione di tutti i rifugi. Il piano fu ben impostato: il sistema si rivelò nel complesso efficace e redditizio.
(Brano tratto da “Pittaluga racconta – Romanzo di fatti veri 1943-45” di Paolo Emilio Taviani – Edizioni il Mulino)
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