Verso la metà di settembre del ’43, un sardo di cui non mi sovviene il nome, e tre giovani siciliani: Severino, Rizzo e Giuseppe, abbandonate le caserme di Caperana, un sobborgo di Chiavari, risalirono la vallata del Malvaro fino a Favale. Qualcuno del Comitato che, subito dopo l’armistizio, s’era costituito nella cittadina rivierasca, gli aveva fatto indossare degli abiti civili e li aveva indirizzati lassù, dove avrebbero trovato i partigiani; dando loro anche una parola d’ordine, ma raccomandando di usarla con la massima discrezione e prudenza.
Quei poveri ragazzi, arrivati che furono a Favale — e le scarpe slabbrate e scalcagnate, e l’abito stesso striminzito facevano pensare che fossero zingari — cominciarono a chiedere a questo e a quello in cui s’imbattevano, dov’era il Comando partigiano e, poiché tutti diffidavano, finirono con lo spifferare la parola d’ordine: « sutta a chi tucca! » che d’ora in poi, come una bandiera, spronerà all’azione le nostre formazioni dell’entroterra genovese, diventando il motto delle Divisioni « Cichero ».
C’era una baita appollaiata su un costone folto di castagni, in località Rocca di Merlo, dov’erano rifugiati mezza dozzina di renitenti alla chiamata alle armi e qualche inglese scampato dal vicino campo di Calvari. I contadini del posto gli portavano patate e farina di castagne: quel poco che potevano dare, che altro non avevano, povera gente; i quattro giovani si sistemarono lassù con loro, mentre per tutta la valle e fin giù nelle cittadine rivierasche, con la presenza a Rocca di Merlo di quel pugno d uomini decisi a fare qualcosa, non importa cosa, pur di fare, già si stava acquistando fiducia nel domani e si guardava con commiserazione quei pochi fascisti che, dopo l’8 settembre, avevano ripreso a circolare.
Poi, ai primi di ottobre, sul monte Antola vi fu un convegno di dirigenti del Movimento di Liberazione, e si cominciò con l’assegnare le zone e dare delle direttive: la più importante era di attaccare e far fuori il maggior numero di fascisti e di tedeschi. Il fatto della mancanza di armi in realtà rappresentava un inconveniente trascurabile, poiché era ovvio che attaccando il nemico, le armi si sarebbero subito conquistate.
Attaccare: con che cosa?
Lo spietato massacro della Benedicta, segnò la fine del periodo di incubazione del movimento partigiano nell’entroterra genovese. I colpi di mano di ribelli isolati stanno diventando vere e proprie azioni coordinate, e il Comando tedesco, fortemente preoccupato, con un grande rastrellamento tenta di distruggere quei focolai di ribellione, anche per rendere sicure le grandi arterie della Fontanabuona, del Trebbia e dell’ Aveto che collegano la Liguria con Piacenza e con Parma.
Dalle basi di Monleone, nella Fontanabuona, e di Torriglia e Rezzoaglio sulle strade del Trebbia e dell’Aveto, partono ogni giorno ingenti forze di fascisti inquadrati da tedeschi, e percorrono le mulattiere che portano sull’Antola e sul Ramaceto, setacciano le vallate, invadono villaggi sperduti sulle pendici di quei massicci, incendiano casolari, razziano bestiame, terrorizzano la gente del posto.
Ma i partigiani, considerata l’impossibilità di opporsi validamente a quella furia, già hanno predisposto un piano di difesa: parte di essi, con a capo il Commissario, si spingeranno nel profondo delle cave di ardesia di Orero, cave abbandonate da anni, percorse da un labirinto di gallerie impraticabili che s’addentrano nel cuore delle montagne; mentre il resto delle forze, col nuovo Comandante della formazione, Bisagno, si rifugerà nei boschi di Panexi, scaverà delle tane ai piedi degli alberi, e i partigiani potranno acquattarvisi, mentre il nemico, che non s’azzarda a penetrare nel folto, sfogherà la sua rabbia mitragliando alla cieca. Finché, dopo un paio di settimane, visto che quella lotta contro un nemico invisibile è destinata a non portare alcun risultato, il Comando tedesco ordina di ridiscendere a valle, lasciando che i fascisti, sui loro fogli, si vantino di avere liberato l’intera zona dai ribelli. Ma ecco, improvvisa e fulminea, la risposta di Bisagno: intima al podestà di Ferriere di dare le dimissioni e di sloggiare dal paese; e poiché questi, forte di un distaccamento di fascisti accasermatosi nelle scuole, si rifiuta di ottemperare all’ordine, al termine fissato blocca la statale e mentre un pattuglione occupa il centro del villaggio attirando su di sé l’attenzione dei fascisti, col grosso della formazione circonda la caserma e piomba da solo nell’interno facendola saltare.
Nello stesso giorno alcune formazioni al comando di Croce, scendono dall’Antola, circondano Rovegno, mentre Scrivia e Moro si spingono in val Borbera, occupando municipi e distruggendo elenchi di renitenti e registri degli ammassi. Infine, nella val D’Aveto l’Istriano e a Varese Ligure gli uomini di Virgola costringono i carabinieri ad abbandonare le caserme.
E dunque i ribelli che i fascisti si vantano di avere sgominato, si presentano più forti di prima: ora hanno un Comando di zona, la Sesta Zona Operativa, con tanto di Stato Maggiore che coordina con intelligenza le azioni e truppe efficienti e decise.
Stanno per diventare l’Esercito di Liberazione.
(Brano tratto da “La Repubblica di Torriglia” di Marzo – Di Stefano editore)
Related Posts