Durante quel rastrellamento dei mongoli, che tante tragedie provocò nelle popolazioni della nostra zona, accaddero anche degli episodi buffi come quello che sto per raccontare e che riferisco non per sentito dire, ma perché l’ho vissuto io stesso: e con me era Rolando, ispettore del Comando Regionale, ancor oggi vivo e vegeto.
Al Comando della Divisione ch’era a Foppiano, per festeggiare il Natale s’aveva in mente una bella strippata, ma poi tutto andò in fumo, si finì addirittura col perdere la nozione del tempo, assillati com’eravamo dalle puntate dei mongoli, sicché in tutta fretta si sloggiava da un accantonamento per stabilirsi in un altro e non si aveva mai un minuto di requie, tanto che non ci s’era accorti ch’era giunto il giorno della gran festa. E dunque eravamo indaffarati a insaccare documenti e provviste per abbandonare quella località ch’era sopra Ottone, in val Trebbia, quando arriva una staffetta a dirci che una colonna di «maimorti» aveva attaccato la baita di Centonoci, vicino a Favale di Malvaro, dov’era rifugiato il comando della brigata Berto; e che per il momento erano stati respinti, ma che bisognava accorrere al più presto per sistemare i feriti prima che quei bastardi tornassero con dei rinforzi.
Partimmo Rolando e io, e di corsa, perché la strada era lunga e disagevole per via della neve e del ghiaccio. Passammo da Fontanigorda dove s’era stabilita una formazione di quelle che in montagna ci stavano sì per combattere, ma combattevano ben poco, ed erano formazioni che si richiamavano a questo o quel partito del Comitato di Liberazione; e una volta che avevamo deciso di sbarazzarcene, disarmandone una nei pressi di Torriglia, il loro comandante (uno smargiasso, con tanto di berretto da maggiore dell’esercito che aveva tolto a un mutilato della guerra del ’15, che lo conservava come una reliquia), s’era rivolto a Genova non so più a qual partito e, apriti o cielo, era successo un putiferio di inchieste e contro inchieste, e quasi saltava in aria l’unità di azione. Così ci eravamo rassegnati a lasciarli campare, con l’inconveniente che nei rastrellamenti subito si aggregavano al nostro Comando ed erano d’impiccio (eppoi, a Liberazione avvenuta, saranno purtroppo loro ad aver fatto tutto, e noi lassù eravamo i cattivi; ma cose simili sono sempre successe da che mondo è mondo e solo ci vuole gran pazienza, e tirare avanti in silenzio, per carità di patria…). E dunque Rolando si ferma alla ricerca del comandante e io gli dico: «Lascia andare, non perdiamo tempo»; ma lui non appena lo trova s’intesta a convincerlo di stare in guardia per via delle puntate che i mongoli potevano fare, sicché quando riprendemmo il cammino già s’era fatto tardi e ancora dovevamo arrivare a Barbagelata e di là poi scendere nella valle del Malvaro, e, a stomaco vuoto come eravamo non è uno scherzo. Finiamo col bussare alla canonica del Casoni di Fontanigorda, dov’era un parroco amico nostro: e difatti ci accolse e subito ci condusse in cucina dov’erano i resti del pranzo di mezzogiorno, una bella fiamminga di pansotti, che sono una specie di ravioli di erbe e ricotta, i resti di un pollo e non so cos’altro ancora. E alla vista di tutto quel ben di Dio, ci sovvenne che era Natale e, senza troppi complimenti ci disponevamo a tavola, quando il contadino che ci faceva da guida e ch’era rimasto fuori, irruppe gridando: «Son qua! Scappiamo, che già stanno arrivando!».
Il parroco s’era afflosciato sul seggiolone e andava supplicando: « Andatevene via, per l’amor del cielo: andatevene che se vi trovano ci ammazzano e bruciano la canonica! »,
Non ci restava che prendere la porta e andarcene.
Non so se conoscete quella strada: ebbene, appena fuori del paese c’è un versante della montagna nudo e scosceso, con una mulattiera ch’è ricavata nella roccia e sovrasta l’intera valle: al chiarore della luna, spiccava nella neve come un solco e la si poteva vedere chiaramente. Ora, quando ebbimo raggiunto il versante opposto, che è piuttosto boscoso, e, col contadino che ci faceva da guida, lì sostavamo un poco a prendere fiato, scorgemmo una lunga fila di gente armata che arrancava a passo svelto seguendo il cammino che avevamo tuo battuto: « Stavolta ci siamo proprio… », gemeva il contadino, e quasi non riusciva a reggersi e a tenerci dietro; d’altra parte, dopo il bosco, s’apriva una distesa bianca dove facilmente ci avrebbero avvistati. Tempo da perdere non c’era, finimmo con l’infilarci in un crepaccio che partiva dalla mulattiera, buio e stretto come una fogna, cercando di portarci in alto fin dov’era possibile. E lì ci acquattammo, aggrappati alle sporgenze della roccia. Ci giungeva il brusio confuso di tanta gente in marcia, e il contadino ch’era un po’ indietro, man mano che questo rumore si faceva più distinto, parendogli di non essere abbastanza al sicuro, s’arrampicava strisciando sulle nostre schiene, e poi, con quei suoi scarponi chiodati puntati sulle nostre teste, senza che noi potessimo muoverci e dir nulla, cercava di spingersi ancora più in alto. Il pericolo era che quelli, avendo seguito le nostre orme, si accorgessero che eravamo intanati lassù; e dunque col cuore in gola .calcolavamo la distanza e se giunti lì sotto, si fossero arrestati. Invece quelli proseguirono nella loro corsa, e ogni tanto ci pervenivano le loro voci che ormai andavano allontanandosi.
“Macchè mongoli d’Egitto!” fece ad un tratto Rolando, mentre, ridiscesi sulla mulattiera, ci stavamo scuotendo la neve di dosso: “Scommetto ch’erano quei fessi di Fontanigorda…”. Ed era proprio così, lo abbiamo saputo poi dopo, quando al bivio di Barbagelata presero la direzione opposta.
Confesso che sarei tornato volentieri indietro a rivedere il buon parroco e i suoi “pansotti” , ma c’erano i feriti da sistemare avanti l’alba. E dietro di me sentivo Rolando che brontolava: “Ci hanno fatto rimettere il pranzo di Natale…bel pasticcio ho combinato, a metterli in guardia…”.
(Brano tratto da “La Repubblica di Torriglia” di Marzo – Di Stefano editore)
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