Nello stato partigiano della Val Trebbia vivevano due ebree. Lo sapevano il parroco e molti fra i ribelli e gli abitanti di Fontanarossa, dove le due sorelle , o cugine?, soggiornavano. Ma tutti tacevano. Miro ne era stato doverosamente informato e altrettanto doverosamente l’aveva comunicato a Maffi e Pittaluga.
L’orrendo genocidio degli israeliti che continuava a consumarsi nei campi di sterminio imponeva l’assunzione di qualsiasi rischio pur di salvare i pochi, anzi i pochissimi che erano riusciti a sopravvivere e a sfuggire alle rinnovate, puntigliose, ostinate ricerche dei repubblichini. Le due ebree soggiornavano nella casa di Pina, che era stata la loro commessa nel negozio di tappeti, che da molti decenni aveva acquisito a Genova stima e risonanza.
La notte del 4 Febbraio 1945 , non era ancora l’alba, parve a Giovanni di percepire dei rumori nella neve alta, che giungeva fino a metà delle finestre del pianterreno. Giovanni, uno dei più noti capifamiglia di Fontanarossa, aveva vissuto e lavorato per molti anni a San Francisco , dove i fontanarossini sono ancor oggi più numerosi che in Liguria. Sulla sessantina, veniva considerato ed era uomo giusto e saggio. Si levò dal letto, scese e socchiuse la porta. La sua casa era la prima del villaggio verso la valle. Vide nette nel biancore della neve, illuminata dalla luna, le sagome dei militari. Un ufficiale tedesco e cinque mongoli. Richiuse la porta e corse ad avvertire la Nini. Il figlio, che da partigiano aveva preso il nome di Sardegna, dormiva in soffitta. La Nini compì un rito ormai solito. La pistola fra le travi del tetto, lo sten nell’impiantito sotto il cassettone. Intanto il fratello partigiano passò nella cascina contigua disabitata; si calò dall’altro lato, sulla neve. Diede l’allarme ai compagni, ma soltanto Attilio e Alfredo riuscirono a raggiungerlo e a nascondersi con lui in un minuscolo antro ricavato fra il soffitto e l tetto di tegole, spiovente nel classico stile a triangolo acuto attrezzato per reggere la neve. Binellin riuscì a sortire dal paese e “rifugiarsi in tana”. Nel frattempo una ragazza saliva carponi strisciando fra neve e ghiaccio, verso la Casa del Romano per recare l’allarme ai partigiani di Croce. I mongoli dilagarono nel villaggio, l’ufficiale tedesco bussò alla porta di Giovanni. Aprì la Nini e lo investì con un fiume di parole. Riuscì a incutere, se non proprio timore, certo rispetto e, con rispetto, il tenente perquisì minuziosamente la casa. Non vide lo sten. Ma una preoccupazione assaliva la mente della Nini: che cosa sarebbe accaduto delle due ebree? Mentre le due sorelle, Gloria e Pernice, rimanevano a seguire l’ufficiale stanza per stanza, la Nini mise nella cesta un pane e una bottiglia di latte, e uscì. Giunse dalla Pina e l’avvertì. Proprio in quello stesso momento sopraggiungeva un sergente tedesco con due mongoli. La riconobbero: “Perché vi siete mossa?” “Che cosa siete venuta a fare?” “Inglesi?” “C’erano inglesi?”. “NO , non ci sono inglesi. Questa donna è mia cugina, ha delle sorelle malate; ho portato il latte, come tutte le mattine”. “Cugina?” domandò scettico il sergente tedesco. “Documenti”. Per fortuna, come spesso accade nei paesi, il cognome della Pina era lo stesso della Nini. Il sottufficiale tedesco si acquietò. Girò per casa. Constatò che nel grande letto al secondo piano stavano effettivamente due donne. Non potè accorgersi che erano ebree. Intanto i mongoli avevano acciuffato Genio, Fiorindo e Jimmy, che era fuggito in montagna. In mutande, 10 gradi sotto zero, lo trattennero con gli altri due sulla piazza della fontana.
Cera anche un partigiano che dormiva, quella notte, nel cimitero: Tony, un austriaco. Fece in tempo a nascondere cinturone e pistola in una tomba e a presentarsi agli ex commilitoni, non come un disertore, quale in effetti era, ma dichiarandosi spia. Gli cedettero, o finsero di credergli, e lo presero con loro.
Terminato il rastrellamento, tedeschi e mongoli si avviarono verso il valico, con i tre prigionieri. Jimmy, quello in mutande, fu capace di sparire, nessuno capì mai in quale modo. Anche perché a metà della salita, il reparto di Croce, appostato dietro a spuntoni di rocce, diede inizio a una sarabanda di raffiche, che parevano i mortaretti del giorno di San Rocco. Un mongolo fu ucciso. Genio ne approfittò per fuggire carponi e porsi in salvo. Fiorindo, che non aveva esperienza di guerra, scappò a saltelloni e fu ferito, per fortuna leggermente, dalle pallottole dei partigiani che non avevano potuto distinguerlo. Le mutande salvarono Jimmy che si mimetizzò con la neve. Tedeschi e mongoli resistettero in un primo momento, installando una mitragliatrice. Ma Croce non desistette. Sten e mitragliatrici continuarono a vomitare fuoco con tale intensità che l’ufficiale tedesco ritenne di trovarsi di fronte a forze superiori e ordinò la ritirata. Un reparto scese a valle, evitando lo scorno di passare sconfitto per Fontanarossa; l’altro reparto si avviò sulla mulattiera di Varni. Qui, a metà strada, dove stava un ponticello o meglio una passerella di rami d’albero legati fra loro a mò di zattera, Tony con un balzo sulla neve saltò rotoloni nel burrone, sul cui fondo stavano immote le acque ghiacciate del Terenzone. I tedeschi spararono a lungo, ma non lo colpirono. Tre giorni dopo (quando ormai il rastrellamento si stava esaurendo) una ragazza, scesa a far legna fra le nevi del pendio, udì i suoi gemiti. Le rocce, gli sterpi, le spine gli avevano portato via maglia e camicia, e avevano graffiato la schiena in qualche punto anche profondamente. Alle ragazze di Fontanarossa ricordava una oleografia orripilante di San Lorenzo arrostito, che tanto le spaventava quando, bambine, guardavano dall’inferriata nella cappella sul costone. Questa fu una delle tante vicende, che si risolse felicemente per i ribelli, e miracolosamente per le due ebree cittadine dello stato partigiano.
(Brano tratto da “Pittaluga racconta – Romanzo di fatti veri 1943-45” di Paolo Emilio Taviani – Edizioni il Mulino)
Vedi anche l’articolo: “Le sorelle maestre di pizzo al tombolo che nel ’44 si rifugiarono in val Trebbia”
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