Il capitano Stuart, ufficiale dell’esercito britannico, era un umanista, professore di latino e greco, figlio d’un operaio, sette volte condannato per manifestazioni e scioperi illegali. Del primo ministro Churchill diceva: «Quel mascalzone». E dell’India: «Tutte balle fasciste! Come potrebbero trecentomila inglesi opprimere cinquecento milioni d’indiani?».
Inferiore di grado, era, di fatto, l’«uomo forte» della missione alleata composta di tre ufficiali: oltre a lui, un tenente colonnello scozzese e un maggiore nordamericano.
Fra i castagni, i faggi e le betulle, le sette case di Foppiano, dove la missione risiedeva in quei giorni, avevano l’aspetto d’un paese di fiaba, o di presepio, come si suol dire a Genova.
Venerdì 20 aprile: primavera incipiente a mille metri d’altitudine, in pieno Appennino. Riprendevano a cinguettare gli uccelli. Sugli alberi le gemme. Il terreno cambiava la sua veste; qua e là il verde tenero dell’erba nuova e il bianco, il giallo, il viola, il turchese dei primi fiori; timidi spruzzi di rame lucente e d’umido lichene sul muschio che stava ringiovanendo.
Dentro alla casupola il tipico arredamento d’un comando militare d’avamposto: un tavolo da disegno su due rozzi Cavalletti, carte topografiche, fogli bianchi e lucidi, squadra, compassi, regolo, doppio decimetro, alcuni lapis e due boccette d’inchiostro.
Sul canterano aperto, invece della farina, pile ordinate di fogli e carte; due sten appoggiati al muro; un goniometro in una culla a dondolo di legno, un tempo intarsiato, ora tarlato.
– Perbacco, persino il goniometro – osservò Pittaluga.
E Stuart – Ufficiale di artiglieria.
-Esatto rispose il primo. Buon servizio d’informazione.
Ceppi di faggio nel focolare e un bottiglione di grappa sul tavolo riscaldavano l’ambiente.
-Siamo alla periferia di Bologna! – aveva annunciato poco prima Stuart, togliendosi la cuffia radioricevente.
E i partigiani – Miro, Ferri, Bisagno, Canevari, Pittaluga – discutevano con lui in italiano, in inglese con il colonnello, nel dialetto di Torriglia con il maggiore, californiano, figlio d’emigranti.
In tre lingue diverse, colonnello, maggiore e capitano ripetevano la stessa cosa: – Non è ancora finita! Non è ancora finita!
Perché?
-Perché i nazisti – spiegava Stuart – stanno già predisponendo l’ultima linea di difesa sul Po. Ripiegheranno lì dall’Emilia e anche dalla Liguria.
-Ma come? – obiettava Ferri – Controlliamo il passo della Cisa, il passo di Cento Croci, le valli di qua e di là dai passi: da Sarzana e da Chiavari le strade per l’Emilia sono in mano partigiana e comunque, ponti rotti, tunnel ostruiti, non sono praticabili. Di qui, dal Bisagno e dalla Trebbia, è chiaro che non passano: ci siamo noi.
-Però hanno la strada e la camionale da Genova al Po. La divisione, o le divisioni che sono ora fra Carrara e Sarzana, si congiungeranno a Genova con quella di Meinhold e ripiegheranno sul Po, a Voghera.
-Ma ai due lati della strada e della camionale fra Genova e il Po ci siamo noi: sulla sinistra in Val Borbera c’è la divisione Scrivia; sulla destra ci sono ancora i nostri e poi tutti quelli delle Langhe.
-Nelle Langhe ci stanno anche le divisioni tedesche.
Stuart volle tagliar corto: – Senta, professore, io uso un paragone che ho imparato quaggiù: noi siamo le ruote del carro. Noi dobbiamo soltanto ubbidire. L’obiettivo è preciso, e ce l’hanno detto, o piuttosto ce l’hanno ripetuto cento volte: deve fallire il piano Kesselring di un ultimo fronte sul Po. Si tratta di abbreviare d’un mese la guerra in Italia. È già durata fin troppo. Se ci riusciremo, sarà anche merito vostro, dei partigiani. Sul Reno di Bologna e a Ravenna i vostri compagni sono stati bravi. Sarete capaci di fare altrettanto?
(Brano tratto da “Pittaluga racconta – Romanzo di fatti veri 1943-45” di Paolo Emilio Taviani – Edizioni il Mulino)
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