La sconfitta tedesca rinvigorì lo Stato partigiano, che fin dall’estate aveva perfezionato la sua organizzazione, aveva consolidato e intensificato i contatti con il C.L.N. Liguria, unanimemente riconosciuto come unico interprete e rappresentante del governo legittimo della Patria. Dal C.L.N. riceveva i finanziamenti finalmente costanti e regolari e dagli aviolanci aveva tratto, fra luglio e novembre, una grossa quantità di armi e munizioni. Capi di vestiario e viveri di conforto continuarono a pervenire – se pure con minor frequenza e in minor quantità – anche dopo novembre, cioè dopo il famigerato editto di Alexander.
L’amministrazione dei municipi era tenuta congiuntamente dai Comandi partigiani, dai parroci e dai capifamiglia. Non c’era, fra questi, alcuno che non avesse qualche figlio, o figlia, irreggimentato fra i ribelli.
Erano comuni poveri, benché la popolazione fosse composta in grande prevalenza di piccoli proprietari. Non c’erano mezzadri o salariati: tutti coltivatori diretti, ma di terre magre, avare, ricche soltanto di boschi: castagni, faggi, frassini, ontani e betulle. Qua e là, presso i casolari, raccolti attorno alla chiesa, dei piccoli prati, spesso coltivati e difesi a terrazze con muri a secco: qui si coltivavano patate, granoturco, cipolle, fagioli e verdure, ma di ogni genere erano quantità così modeste, da non coprire il fabbisogno neppure delle famiglie dei proprietari. Il regime fascista non s’era per nulla curato di queste zone; perfino la battaglia del grano non era giunta quassù. Le poche “fasce” faticosamente coltivate a grano costituivano una tradizione secolare: con lo scarso raccolto i capifamiglia scendevano, a mezza estate, ai mulini del fondovalle e si riportavano a casa uno o due sacchi di farina; il resto – sei, sette, soltanto eccezionalmente più di dieci sacchi – lo vendevano, e con i soldi compravano le scarpe per loro, le mogli e i figli. D’estate, si poteva anche andare per le straducole dei villaggi a piedi nudi, ma non al pascolo a causa delle vipere. Nelle altre stagioni le scarpe costituivano l’assillo maggiore per l’economia familiare. I vestiti duravano decenni, le scarpe no.
Prodotti basilari dell’economia dello Stato partigiano erano le castagne e il latte, che venivano utilizzati in vari modi: castagne arrostite o lesse, durante il periodo del loro raccolto; poi, durante tutto l’inverno e ancora in primavera, castagne secche e castagnaccio. Si mangiava anche polenta; minestrone di pasta con il “pesto” secondo l’usanza ligure; pane, uova, ma non tutti i giorni. C’erano i funghi tra fine agosto e settembre. La carne – bovina, suina, ovina – era il cibo delle feste e non di tutte.
L’organizzazione congiunta dell’esercito dei ribelli e dei capifamiglia aveva dato un certo ordine alla distribuzione dei beni di conforto lanciati dai paracadute alleati: tabacco, zucchero, caffè, e perfino la cioccolata.
La disciplina era rigida, severa, nello Stato partigiano, qualche volta necessariamente spietata.
Per esempio, un’accusa di furto recidivo non comportava la possibilità di attenuanti.
Era guerra. E senza severità non si poteva sostenere e vincere una guerra che aveva bisogno soprattutto e innanzitutto della fiducia delle popolazioni. Gli uomini e le donne delle valli, i capifamiglia, i parroci dovevano avere la certezza d’uno Stato di diritto severo, ma eguale per tutti: anche e soprattutto per i partigiani che quello Stato avevano costituito e stavano gestendo.
(Brano tratto da “Fascia. Un paese, una Chiesa, una Comunità.” A cura di Paolo Emilio Taviani, Avv. Elvio Varni, Don Pietro Cazzulo, Rita Barbieri – Edizioni d’arte Marconi)
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