Italo Londei, il leggendario comandante partigiano, dalla sua postazione di Ca’ Borelli-Mazzucca, invia una pattuglia di tre dei suoi partigiani a Santa Maria per richiedere munizioni agii altri suoi reparti là dislocati.
Raggiunta la Scabbia (o Pegni sopra) i tre consumano un pasto in casa dello zio di uno di loro, prima di riprendere il cammino per S. Maria, quando vengono informati da qualcuno del posto dell’arrivo di una colonna comandata da tedeschi composta da una cinquantina di armati che scendevano da Vaccarezza. I tre si affrettano dunque a raccogliere le armi e ad uscire di casa con l’intenzione di allontanarsi, ma si trovano faccia a faccia con il nemico. Lo scontro è inevitabile. Il più lesto ad aprire il fuoco è uno dei partigiani che, con la sua raffica, causa al contingente avversario un morto e tre feriti. Poi, sempre sparando, benché un compagno fosse ferito ad un braccio, i tre riescono a sganciarsi e a porsi fuori dal tiro nemico.
La reazione dei nazifascisti è furibonda, motivata anche dalla sensazione di trovarsi attaccati da una intera brigata partigiana. La conseguente rabbiosa sparatoria raggiunge la casa del contadino Aniceto proprio nel momento in cui stava consegnando alla moglie il portafogli, prima di fuggire da una finestra (particolari testimoniati da Giuseppe Malacalza e Claudio Bellocchio, le cui famiglie ospitavano allora, presso Ca’ Borelli-Mazzucca il comando partigiano di Londei).
I tre partigiani si allontanano in direzione Sermase-Cerro. Quando il partigiano ferito si avvicina a Ra Ca’ Nova, la sig.ra Giulia Agnelli, vedendo le sue mani insanguinate, gliele avvolge in una federa bianca, osservando i successivi movimenti del fuggitivo che, a non molta distanza, perde l’involucro tutto insanguinato che giace in terra ben visibile. La signora, pur in preda alla paura, trova il coraggio di allontanarsi da casa, raggiungere il posto e seppellire la federa sotto la terra arata (testimonianza di Colombano Leoni, figlio di Giulia Agnelli).
Nel frattempo i nazifascisti sono a Pegni Villa, perlustrano l’abitato, arrestano il proprietario avv. Della Cella e suo figlio, che verranno condotti prigionieri a Bobbio, e appiccano il fuoco alle cascine continuando a sparare. Le donne presenti si riparano sotto la cappa del camino e usciranno miracolosamente incolumi, nonostante le pentole di rame appese tutt’intorno vengano ritrovate bucherellate dai proiettili. Gli uomini non sanno rimanere impassibili davanti alla distruzione di tutto il raccolto e si danno da fare con ogni mezzo, sotto gli occhi del nemico, per spegnere l’incendio e salvare il salvabile. Ma verranno dissuasi a salire sulle cascine sotto minaccia delle armi, iniziativa che verrà invece consentita al parroco don Agostino Ridella, nel frattempo sopraggiunto (particolari testimoniati da Luisa Leoni presente al fatto). I presidi nemici di Bobbio e Vaccarezza intervennero infine col fuoco dei loro mortai seminando il panico con il rischio di colpire la loro stessa colonna. Fortunatamente non ci furono altre vittime.
I resti di Aniceto Capucciati riposano nel cimitero di Vaccarezza in un loculo di famiglia. Il repubblichino, vittima della coscrizione obbligatoria attuata dalla Repubblica di Salò, oltreché della reazione partigiana, era un giovane italiano di Brembio (Milano), di nome Uggeri Pietro, come risulta dal registro dei morti di quel giorno del Comune di Bobbio.
Olimpio Mielati
(Articolo tratto dal N° 6 del 16/02/2017 del settimanale “La Trebbia”)
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