Il rastrellamento d’inverno iniziò lunedì 11 dicembre.
Fu un inferno. Tra Fascia e la Val Borbera i partigiani furono individuati da una “cicogna”. Colpi di mortaio, anche 75/13, quelli dell’artiglieria campale. I partigiani avevano anche un mortaio e abbondanti munizioni per gli sten.
Le battaglie furono durissime tra Fascia e Cabella, a cavallo dello spartiacque tra la Trebbia e lo Scrivia.
Il venerdì 15 dicembre Scrivia diede l’ordine d’occultamento. “Entrate nelle buche”.
Così le descrisse un partigiano gravemente ferito, ricoverato dalla Resistenza genovese all’ospedale di San Martino dove morì: “Le buche sono una bella trovata, mica comoda però. Sono tane, insomma nascondigli. Si sta lì, cheti, cheti, finché c’è il rastrellamento. Di notte si esce per sgranchire le gambe e respirare meglio. L’estate scorsa faceva abbastanza caldo e le cose andarono bene. Ma ora, con il gelo: una tortura, qualcuno c’è rimasto secco. Io ho avuto la fortuna di trovarmi una bella tana: per me e l’Olandese. Un macigno presso un rigagnolo, l’acqua scorre dietro al macigno e non arriva alla grotta: in due ci si stava bene. Siamo stati lì; indovini quanto? Otto giorni! L’ordine d’uscire Scrivia ce lo diede l’antivigilia di Natale. Avevamo di riserva nella nostra buca molte gallette. Le avevano fatte i fornai della valle, per ordine di Scrivia. Erano di farina buona. E poi scatolette di tonno, di quelle dei lanci, un fiasco di vino e una bottiglia di grappa. Tutto pronto da parecchi giorni. Lo sa che ognuno conosceva la sua buca, ma non quella degli altri? Neppure i capi le conoscono tutte. Ci siamo razionati, io e l’Olandese. Di notte uscivamo di tanto in tanto. Facevamo ginnastica per scaldarci, prendevamo i pezzi di ghiaccio al rigagnolo e li mettevamo nelle gavette. Poi li scaldavamo. Avevamo anche il fuoco nella buca e la galletta era più buona ammollita nell’acqua calda. Qualche volta i tre della buca di sotto venivano nella nostra. Si stava stretti in cinque. Ma si chiacchierava. Furono loro a trasmetterci l’ordine d’uscita. L’antivigilia di Natale. Che Natale!”.
I nazisti, utilizzando i reparti turchestani, conquistarono i valichi.
Rocchetta Ligure fu saccheggiata – pollame ucciso e divorato. Vacche, capre, muli, cavalli: il bestiame requisito. Rubati i vestiti, gli orologi. Frustato il cappellano; violentate le monache dell’ospedale; perfino delle donne davanti agli occhi del marito, una signora sfollata dinanzi alla figlioletta. In altri villaggi, a Carrega, a Cantalupo, a Fascia, a Fontanarossa, ad Alpe, a Cassingheno, gli ufficiali tedeschi avevano imposto disciplina. A Rocchetta no. Si era scatenato l’inferno. Ma i partigiani resistevano.
Il 22 gennaio del ’45, un plotone di cento tedeschi attaccò Carrega. Fu costretto a ritirarsi, decimato, dopo tre ore di battaglia.
Il 23 gennaio, una colonna mista di tedeschi e Decima Mas ci riprova; viene respinta.
Nuovo tentativo, il 24 gennaio. Un contrattacco sotto il Monte Carmo lo frantumò.
Il 26, cinque attacchi concentrici nel Brugneto, dal Borbera e dal Curone e intorno a Fascia. Tutti falliti.
Il 27 gennaio, un pattuglione tedesco rimane bloccato fra Casola e Carrega. Riceve grossi rinforzi il 29. Il 30, rompe l’accerchiamento. I garibaldini lasciano passare il grosso, attaccano la retroguardia; catturano 32 prigionieri, tra i quali un ufficiale e sei sottufficiali, un cospicuo bottino d’armi e munizioni.
Il 2 febbraio, i tedeschi decidono un attacco più vigoroso con SS e turchestani: forzano le gole di Pertuso, raggiungono Cantalupo. I garibaldini, appostati, li attendono un chilometro oltre il paese; la battaglia comincia all’una del pomeriggio. All’imbrunire gli ufficiali tedeschi ordinano la ritirata. Molti morti e feriti, quarantasei prigionieri.
Nell’alba nebbiosa e gelida del lunedì 6 febbraio iniziò, di qua e di là dal monte Carmo, l’ultima fase del rastrellamento. I garibaldini tennero tutte le posizioni, anzi assunsero spesso l’iniziativa e catturarono centinaia di prigionieri.
Combattuta in condizioni climatiche tormentose – neve, ghiaccio, vento, bufere – la battaglia d’inverno si concluse con una vittoria. Gli stessi tedeschi lo riconobbero. Da quel momento trattarono con lealtà e rispetto l’esercito partigiano, come un esercito regolare.
I tedeschi desistettero.
Le notizie di quanto avveniva in Val Trebbia già inducevano il comando germanico a rendersi conto delle immani difficoltà di aprire la statale 45 e di mantenere il controllo fino al momento dell’eventuale ritirata dalla linea gotica. La sconfitta di Cantalupo diede il colpo di grazia. La Val Borbera costituiva l’ala destra dello Stato partigiano: era la più vulnerabile, perché a diretta portata delle vicine basi tedesche e fasciste di Serravalle, Arquata e Novi, città attrezzate e servite da molte strade e linee ferroviarie. I tedeschi avevano progettato di sfondare nella gola della Val Borbera, di risalire fino ai valichi e di là scendere per le convalli a ricongiungersi con i reparti che in mezzo a gravi difficoltà cercavano invano di spezzare e disperdere i ribelli. Se il piano tattico fosse riuscito, una larga fetta di territorio partigiano – dal Buco di Torriglia fino a Gorreto – sarebbe stata circondata e il piano strategico si sarebbe realizzato. Invece la Val Borbera tenne; i tedeschi e i turchestani non riuscirono a passare. E il comando germanico dovette prendere atto che anche il piano strategico era fallito. La statale 45 non avrebbe potuto servire e non servì per la ritirata delle forze tedesche dalla Liguria alla Valle Padana.
(Brano tratto da “Fascia. Un paese, una Chiesa, una Comunità.” A cura di Paolo Emilio Taviani, Avv. Elvio Varni, Don Pietro Cazzulo, Rita Barbieri – Edizioni d’arte Marconi)
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