Una delle specificità dell’attività agricola condotta con metodi tradizionali consisteva nel fatto che erano i contadini stessi a costruirsi gli attrezzi necessari per il lavoro; erano esclusi solamente quelli in ferro la cui messa a punto richiedeva la capacità di lavorare i metalli.
Fra i vari strumenti necessari per le operazioni agricole uno tra quelli fondamentali era il giogo (zuu), una barra di legno sagomato applicata al collo dei bovini per farli lavorare in coppia al traino di una slitta, di un carro o di un aratro.
Attualmente si possono vedere gioghi nei musei della civiltà contadina, nella collezione di qualche amatore o esposti in certi ristoranti come elementi decorativi; rarissimo vederli ancora svolgere la funzione alla quale erano destinati. Costruire un giogo non era facile, infatti non tutti i contadini ne erano capaci e per questo si affidavano all’abilità specifica di qualche compaesano comunque anch’esso per la maggioranza del suo tempo occupato nel lavoro dei campi.
Essendo io nativo di Bertassi (Ottone) ho studiato i gioghi del mio paese ma quanto dico trova analoghi riscontri in tutti i paesi dell’Alta Val Trebbia.
Vediamo ora tutte le operazioni necessarie alla fattura di un giogo. Anche se esistevano gioghi fatti di acero (piana) il legno considerato migliore, per non essere troppo pesante e nello stesso tempo molto resistente, era quello di faggio (fô).
Il costruttore si recava nelle faggete del monte Zucchello, individuava un faggio dalle opportune dimensioni, lo abbatteva con la scure (puöröttu), lo sezionava in tronchi di circa 2 m che venivano privati della corteccia e spaccati a metà. Il taglio andava fatto in primavera quando la linfa cominciava a scorrete dopo il blocco invernale perché si pensava che in tal modo il legno non tarlasse. Il legname veniva lasciato a stagionare fino all’autunno e poi era pronto per essere lavorato. Si faceva dapprima un’operazione di sgrossamento e di rudimentale sagomatura usando un’accetta (seghì), poi si iniziava la vera e propria modellazione con l’uso del tiraleggnu (strumento costituito da una lama con due manici ad essa perpendicolari) facendo ben attenzione a non andare in senso opposto alla vena del legno (cuntraleggnu); per sagomare le parti concave si usava un’ascia dal manico molto corto (sapetta), si usavano anche vari tipi di scalpelli (scuoparieli), la raspa e il raschietto (ras-cia) per la levigatura, la tenevella (teneviela) per praticare due fori per parte. La convessità (cuppa) in cui il giogo veniva a contatto con la sommità del collo dei bovini era sagomata con molta cura in modo che non producesse escoriazioni.
A fine lavoro veniva dato all’opera un tocco “artistico” incidendo sulla parte superiore fregi con la sgorbia: quella che ne usciva era una vera e propria scultura lignea.
Alcuni gioghi avevano talvolta una sorta di marchio di fabbrica indicante l’anno di fattura e la famiglia dell’autore. Per essere pronto all’uso il giogo doveva essere accessoriato: una correggia (currezzuora) passante per i due fori su ciascun lato reggeva due aste lignee (garapiele) opportunamente sagomate e destinate ad essere bloccate con cordicelle (seccagnin) attorno al collo dei bovini.
Al centro del giogo c’erano due cubetti ai lati dei quali passava una striscia di cuoio particolarmente robusto (mascarüzzu) che reggeva un ovale di legno (mazzuora) dove veniva infilata la parte terminale del timone delle slitte o dell’aratro; negli esemplari più moderni sia l’ovale che i suo sostegno erano in ferri opportunamente sagomati dai fabbri Attilio (1883-1949) e Dino Saredi ( 1925-2008) che avevano il laboratorio a Gorreto.
La lunghezza di un giogo usato per trainare slitte era di circa un metro per una larghezza massima di 10/11 cm, gioghi di dimensioni superiori erano necessari in caso fossero utilizzati per buoi di stazza superiore alla media o per arare. Durante l’aratura un bovino affondava le zampe nelle zolle, l’altro invece nel terreno ancora da arare e rimaneva più in alto pertanto il giogo doveva garantirgli maggiore libertà di movimento.
Normalmente si pensa al giogo per la coppia di bovini ma ne esisteva anche un tipo fatto appositamente per un singolo animale, in questa tipologia c’era una sola cuppa e al posto dell’anello centrale c’erano due anelli laterali più piccoli in ognuno dei quali veniva infilato un timone di ridotte dimensioni.
A Bertassi i costruttori di gioghi tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento furono Giovanni Fontana (1868-1941) e Luigi Salvi (1903-1969), rispettivamente mio nonno materno e mio padre. Mio nonno apparteneva a una delle famiglie Fontana che dalla Val d’Aveto si erano trasferite a Suzzi (Val Boreca) e che si distinguevano per l’abilità nella lavorazione del legno ed insegnò poi l’arte di costruire gioghi al marito della figlia Maria. Suocero e genero fabbricavano gioghi per i compaesani ed anche per abitanti dei paesi vicini dai quali spesso ricevevano in compenso non soldi ma prodotti alimentari quali lardo o formaggio. Ad essere pagati in moneta erano invece i gioghi che costruivano per alcune fattorie di Casteggio che richiedevano manufatti più grandi e robusti destinati a reggere la forza del traino dei possenti buoi di pianura, di maggiore stazza rispetto a quelli delle nostre montagne.
Progressivamente la meccanizzazione in agricoltura rese obsoleti i gioghi nelle grandi aziende della collina e della pianura, rimasero invece in utilizzo in Alta Val Trebbia fino agli anni Sessanta del ‘900 cioè fino alla scomparsa dell’attività agricola tradizionale.
Essendo costruiti in legno moltissimi gioghi sono andati distrutti ma qualcuno è, nei vari paesi, ancora conservato con cura, in qualità di strumento testimone dell’abilità dei costruttori e delle grandi fatiche che uomini ed animali dovevano compiere per strappare alla terra i sudatissimi mezzi di sussistenza.
Giovanni Salvi
(Articolo tratto dal N° 32 del 08/10/2020 del settimanale “La Trebbia”)8
Related Posts