E’ il bosco che domina il territorio dell’Alta Val Trebbia, signore incontrastato è lì a ricordarci l’importanza che ha avuto nella vita dei nostri vecchi.
Castagne, castagne e ancora castagne, questo sembra essere stato l’alimento dei montanari.
Seccate in appositi casolari o depositate a strati sui graticci che costituivano il soffitto di fumose cucine, venivano macinate per essere trasformate in farina e questa in polenta.
Il castagno è l’albero più diffuso nella zona, i suoi boschi emanano fascino in ogni stagione ma è soprattutto in autunno che rivelano la loro bellezza.
Colori che vanno dal giallo più acceso al rosso scuro, alle diverse tonalità del marrone, lo tingono nel periodo della raccolta.
Un tempo questo tipo di bosco veniva rastrellato e scopato con ramazze per mantenerlo pulito al fine di facilitare la raccolta dei suoi frutti alla quale partecipavano tutti i componenti della famiglia, bambini compresi.
Chi ha fatto questo lavoro ricorda con disappunto il freddo alle dita che diventava insopportabile quando, nelle mattinate di gelo, la brina ghiacciava le unghie.
A forza di ceste i grossi sacchi venivano riempiti e il loro numero commentava in modo esplicito la bontà dell’annata. Una volta seccate le castagne erano trasportate al mulino dove, nottetempo, venivano macinate. L’operazione di macinatura di questi frutti, infatti, avveniva regolarmente alla notte, poiché di giorno le macine lavoravano per il grano o il granturco.
Grande attenzione veniva rivolta all’operazione di essiccatura del prodotto, perché se la castagna conservava ancora una certa umidità finiva per impastare le ruote della macina e, a questo punto, il mugnaio era costretto a ripulirla per intero con un lungo e faticoso lavoro di scalpello.
Spesso ho fantasticato sui racconti che i montanari erano soliti fare in queste veglie, il gusto per lo scherzo certo non mancava e tra un racconto, un aneddoto o una celia accadeva che, per tirar giorno, si cuocesse una polenta.
Doveva essere ben cotta, soda, consistente, così che quando il paiolo veniva rovesciato sull’asse di legno, potesse avere la forma tonda di un bel sole caldo.
Veniva rigorosamente tagliata con il filo e ognuno si serviva alla buona, con le mani che in queste occasioni facevano veci di stoviglie.
Ho immaginato occhi di bambini brillare alla luce di un fuoco su visi rugosi di uomini, ho assaporato l’odore del trinciato fumato fino a bruciare le dita.
Ora i mulini sono morti, riposano diroccati a lato del fiume, invasi da erbacce e con loro se sono andate quelle persone che li avevano animati, le ruote sono arrugginite e le castagne possiamo comprarle al supermercato, ma non hanno sapore.
Ormai, non sono più buone.
Enrico Rettagliata
(Questo articolo è stato tratto dal N° 21 del 31 Maggio 2001 del settimanale “La Trebbia”)
(La fotografia del mulino di Pey è di Mirco Bruzzone)
Related Posts