Attorno ai mulini ruota tutta la vita e l’economia delle comunità umane. Nel cinquecento i mulini di Val Trebbia ebbero particolare importanza per la via del pane, che dalla pianura portava a Genova grano e farina e che si identificava solo a tratti con la via del sale: Da Piacenza e zone vicine il grano arrivava a Bobbio. Attraversando Bettola e il Maggiorasca giungeva in Val d’Aveto e dal Monte Caucaso e dal Ramaceto scendeva a Terrarossa in Val Fontanabuona.
Da questa località un braccio inerpicandosi a Uscio, ridiscendeva al di la dell’Appennino sino a Genova. I mulini che hanno avuto una lunga storia come motori d’economia, sono al centro di un rinnovato interesse, ma non devono restare “gusci vuoti”. Tale espressione è dell’architetto Fabrizio Bertuzzi, progettista del recupero di due di essi in Val Trebbia, che scrive: “Ora l’inarrestabile rullo compressore ha cancellato quasi tutti i segni delle attività umane del passato recente e remoto lasciandoci dei “gusci vuoti”. Villaggi abbandonati, mulini dismessi, campi non coltivati, stalle senza bestiame, chiese non officianti, fontane non affollate …” Lo stesso Bertuzzi afferma che si possono riempire i gusci vuoti con nuove attività economiche che ci aiutino a conservarli e a trasmetterli a quelli che verranno dopo di noi, anche in ragione del fatto che l’Abbazia di Bobbio, con i suoi monaci, fu la prima fautrice di queste innovazioni meccaniche. Ferdinando Calegari, ricercatore presso l’Istituto del Genio Rurale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, spiega: “Dalla molitura del grano con macine in pietra si ottiene un prodotto eterogeneo per la contemporanea senza di derivati diversi per grossezza e qualità. Alla macinazione deve perciò seguire la cosiddetta burattazione, con l’uso di setacci (chiamati buratti) che separano farina, crusca e tritello. La farina che si ottiene con questo procedimento ha caratteristiche particolari, è meno bianca di quella che si ottiene in un mulino moderno perché meno raffinata e più ricca di fibre alimentari. Nella farina ottenuta con macinazione a pietra troviamo tutti i componenti del grano di partenza. In particolare la parte proteica, il cosiddetto glutine, mantiene quasi intatta la sua struttura chimico-fisica conferendo ai prodotti derivati (pane, pasta e dolci) proprietà dietetiche e organolettiche esclusive. Calegari, autore nel 2000 di una ricerca sui Mulini della Val Trebbia, suggerisce per alcuni di essi un altro possibile utilizzo: “Potrebbero essere trasformati in piccole centrali idroelettriche per fornire l’energia necessaria alle aziende agricole”. Potrebbero quindi alimentare gli agriturismo, i centri di sosta e di ritrovo lungo i percorsi ecoturistici, tanto più che oggi si cercano sistemi alternativi per acquisire una qualche indipendenza dalle reti energetiche estere. Nel passato in Val Trebbia i mulini non erano adibiti solo alla molitura, ma con l’energia prodotta dai marchingegni ad acqua, permettevano attività collegate, come la tessitura della canapa, il lavoro del fabbro ed il nascere di zecche per il conio di monete. A testimoniare il rinnovato interesse per l’argomento, in occasione dei percorsi giubilari, è stata posta una targa informativa su di un muro esterno del mulino dei Doria in Ottone, la quale indica che “al piano superiore dell’edificio era locato il reparto in cui le donne preparavano la canapa da tessere”. Il cap. CLXXVI degli “Statuti di Bobbio” (M. Tosi – G. Fiori, O.C., Piacenza 1970, p. 107, nota 3: Statuta Inclitae Civitatis Bobbi ed. 1682), approvati dal Duca di Milano Gian Galeazzo Visconti il 9 luglio 1398 e quindi applicati anche nel nostro territorio, stabiliva che i mugnai dovessero spazzare il canale quattro volte l’anno nel tratto interno e per quello esterno dovessero rendersi disponibili alla manutenzione, ciascuno per due giornate di lavoro, definiva i loro obblighi, fissava il prezzo della macinazione e vietava di servirsi, per la molitura dei cereali, di opifici che non fossero dei feudatari.
La soggezione o meno a tributi era in rapporto alla distinzione tra mulini feudali, padronali e di villaggio. Nel medioevo i feudatari istituirono il monopolio del “molendinum” che garantiva ai nobili ed agli ecclesiastici il diritto di sfruttare i corsi d’acqua per scopi di molitoria.
Per i mulini che dipendevano dalla condotta del bedo (da bed, che nel dialetto di Bobbio, e in alcuni luoghi limitrofi e nel territorio che ci interessa significa corso d’acqua perenne dovuto ad opere dell’uomo con o senza manufatti) un obbligo consolidato nei secoli e sussistente ancora al tempo dell’ultima guerra, era il non poter macinare nei giorni della settimana in cui l’acqua serviva ad irrigare le proprietà dei Signori.
Altre usanze di quel periodo furono i privilegi e tasse feudali, tra questi l’erbatico, tributo corrisposto al signore feudale per poter tagliare l’erba nei pascoli pubblici; in seguito, un canone pagato dal mezzadro per il pascolo di buoi e greggi nei terreni del padrone. I mulini di villaggio rappresentavano un modello di usi collettivi: erano di proprietà consortile, mancava l’addetto alla macina e ciascuno poteva portare le proprie granaglie, provvedendo da sé alla macinazione. Tra questi c’erano il mulino di Campi in frazione di Ottone e quello di Foppiano.
Altra usanza antichissima nel nostro territorio era quella di eseguire in comune la battitura del grano.
(Tratto dalla pubblicazione “Rovegno e dintorni – …Mulini…,Vita…,Economia…”
Comune di Rovegno – Assessorato alla Cultura
Comunità Montana delle Alte Valli Trebbia e Bisagno
Provincia di Genova)
(La fotografia del mulino di Cerignale è di Monika Rossi)
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