Giovanni Andrea Doria IV (1743/1764), fu il primo principe di un nuovo “Soggetto politico” del nostro Appennino: il Principato di Torriglia. Un Ente sorto dalla fusione del marchesato omonimo, con Ottone e Santo Stefano d’Aveto, già appartenenti, per altro, alla Casata. L’imperatore del Sacro Romano Impero riscontrava, con questa specie di promo-zione in dignità e funzione, l’importanza del nuovo Stato a controllo di impegnativi confini e vallate, Trebbia e Aveto, con mulattiere molto frequentate da crescenti traffici e commerci, tra Genovesato e Piacentino. Antiche strade frequentate, purtroppo, anche da banditismo vario, molto pericoloso e deleterio nei confronti di transiti rapidi e sicuri. Il principe in tale ottica diede subito inizio a lavori di manutenzione e ampliamento del castello di Ottone, Paraso (Palazzo di giustizia, ovvero Tribunale), e Torre centrale, ampliata e resa nelle attuali dimensioni e consistenze (Castello, propriamente detto). Nella torre centrale alcuni ambienti furono deputati a prigione. Lungo lo scalone centrale una cella è rimasta perfettamente integra e credo possa rappresentare una interessante pagina di storia carceraria feudale. In detta cella, oggi si direbbe di “Massima sicurezza”, venne rinchiuso un pericoloso bandito, in attesa di giudizio. Un delinquente specializzato in aggressioni ai viandanti, catturato con molta fatica. Un uomo robusto; di imponente statura, abile nella lotta. Pugno di ferro, molto temuto. Approfittando di una sortita delle guardie, spedite in missione, il bandito che di certo aveva da tempo studiato un progetto di fuga, diede inizio ai preliminari. Emettendo lamenti per dolorosità ben simulate, richiamò l’attenzione del custode, un vero e proprio pugile dei pesi massimi, capace di fronteggiare un’armata. Quale timore avrebbe mai dovuto avere nell’eventuale scontro con il nostro carcerato? Ma non ci fu scontro; solo pietà. Entrato il “Pugile” nella cella vide il bandito supino, con gli occhi rovesciati; bava alla bocca, volto pallido e disfatto. Rantolo sempre più fleble e respiro scomposto, in orrendo affanno. Chiare evidenze di trapasso imminente. Un’agonia recitata con arte, degna di grande attore di ottimo teatro e regia. Nonostante il carceriere fosse un uomo navigato, diffidente ed astuto, cadde nel trabocchetto. Agganciato il “moribondo” con una pesante catena alla porta, spessa quercia di “Risecca selva”, rinforzata con lastre di ferro (non si sa mai), corse l’ingenuo dall’arciprete perché, in fretta, si potesse procedere all’Estrema Unzione. Ma la porta rimase aperta! Sollevatala dai cardini e presa sulle spalle, fuggì il bandito verso ignota meta d’agognata libertà. Non venne più ritrovato, fece perdere le sue tracce, rovinò carriera e salute al carceriere. La porta, invece, fu recuperata e tornò al suo posto: si può ancora vedere. Non è stata pesata, ma da stime di persone qualificate il suo peso dovrebbe superare di molto i due quintali. Io, probabilmente, non sarei riuscito a scappare!
Attilio Carboni
(Articolo tratto dal N° 8 del 28/02/2019 del settimanale “La Trebbia”)
28(La fotografia del Castello di Ottone è di Monika Rossi)
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