Con un’interessante dissertazione storica di Colombano Leoni, tenuta presso il Centro Culturale, sono “riapparsi” i Cartaginesi nella nostra valle.
Sulla storica battaglia della Trebbia sono corsi fiumi d’inchiostro. Tant’è che dal tempo di Polibio e di Tito Livio un nutrito numero di studiosi, variamente qualificati, ha ripreso il caso in epoche successive: chi analizzando l’aspetto tattico della battaglia, chi descrivendo la geografia dei luoghi, chi dando elementi statistici sulle forze in campo e sulle perdite negli opposti schieramenti.
Sull’epico fatto d’arme del gennaio 218 vi è da parte degli storici una sostanziale concordanza, ma tutto si complica per gli eventi successivi: cosa cioè sia avvenuto nei mesi tra il gennaio 218 e il maggio 217 a.C. L’assenza di testimonianze ha alimentato un dibattito che, per quanto serrato, non ha prodotto certezze. Quel che è certo è che Annibale valicò l’Appennino diretto al Trasimeno. Se ciò sia avvenuto attraverso il passo del Bratello (via Trebbia/Aveto) o per via della Cisa – come altri sostengono – è cosa del tutto trascurabile nel quadro della vicenda anche considerando che spesso non è l’intelletto ma il sentimento a determinare le opinioni.
Dobbiamo a Michele Tosi (per altro valente medievalista) l’aver dato impulso all’ipotesi del viaggio d’Annibale attraverso la Valtrebbia proponendo addirittura un preciso schema cartografico del tracciato. Ma, impostata tale congettura, (guai ad innamorarsi delle tesi!) ha poi dovuto ridimensionare l’assunto, appoggiandosi a prove quanto mai labili: l’aiuto di guide Liguri, il gusto di Annibale per originali azioni strategiche, reperti di attività umana nell’Appennino, l’esistenza della “via dello stagno” ecc. Anche se Tosi adotta un cautelativo punto interrogativo, e rimandi le conferme storiche ad improbabili indagini successive, la vicenda ha finito per allargarsi ad aspetti romanzeschi che sono spesso di corollario alla vita dei grandi personaggi.
Per quanto l’Autore non faccia accenno alla toponomastica della Val Borreca, la credenza di un insediamento cartaginese nell’area si appoggia in modo suggestivo all’analisi dei toponimi.
La frazione di Tartago ha una certa assonanza con “Cartago” che però è termine romano, (come chiamavano Cartagine i cartaginesi?). Altra assonanza è quella che associa l’abitato di Zerba all’isoletta di Djerba per non parlare dell’ipotesi di un Bogli con l’algerino Bougie e di un Suzzi con Sousse entrambi termini francofoni di Bejaia, il primo e Susah il secondo.
Ma lasciando da parte queste pittoresche fonetiche associazioni che riscuotono un certo credito va aggiunto che i toponimi della Val Boreca potrebbero per altro dare materia a dissertazioni umoristiche. Ciò valga per la frazione di Belnome il cui nome originario pare avesse scandalizzato per la sua indecenza il vescovo di Bobbio in visita pastorale. La storiella continua ancor oggi ad avere un certo successo smentita tuttavia dal testo di un antico documento che riporta: “Bellonomine noncupator Veta” (Belnome un tempo chiamato Veta). Niente di indecente, come si vede.
Al limite del grottesco si può aggiungere il caso del toponimo “Lesima” che un noto personaggio ottonese – accanito sostenitore della epopea cartaginese – faceva risalire a “lesa manus” ipotizzando che Annibale si fosse incidentalmente ferito su quel monte.
Tornando ad argomenti meno frivoli ed avendo negli anni ’50 girato in lungo e in largo la val Boreca ho d’allora maturato la convinzione di quanto fosse inverosimile che contingenti cartaginesi (sempre ammesso il viaggio in Val trebbia) si fossero inoltrati in questo autentico cul de sac senza sbocchi, chiuso dalla giogaia boscosa che dall’Alfeo si congiunge al monte Carmo.
Che una tale digressione di marcia si sia resa necessaria in appoggio alle tribù Liguri dando luogo alla creazione sul posto di una specie di Accademia militare in funzione anti romana è ipotesi veramente affascinante ma, ahimè, tutta da dimostrare.
Il costruire realtà ipotetiche in cui credere con valore di storicità è diritto costituzionalmente tutelato di ognuno. Personalmente credo più opportuno abbandonare tutta la vicenda al mistero e al silenzio di quei secoli remoti. Ciò per salvarci dal ricadere ancora nella banalità dell’aneddoto come quello di Hemingway che pesca le trote e scola bottiglie in val d’Aveto e quello di Leonardo che, per lo sfondo della Gioconda, è venuto a dipingere il nostro ponte Vecchio.
Le favole hanno una potente attrattiva ma, per quanto piacevoli, purtroppo tali rimangono.
Gian Luigi Olmi
(Articolo tratto dal N°26 del 19/07/2018 del settimanale “La Trebbia”)
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