I produttori di castagne ormai scarseggiano in tutto l’Appennino. A partire dagli anni Cinquanta un vero e proprio esodo che dalle nostre montagne ha portato e continua a portare persone verso le città. E così molte attività, cura dei castagneti compresa, si sono fermate. Molte piante, non curate, sono state aggredite dai parassiti. Al loro posto sono spuntate altre piante. Molti castagneti sono tornati ad essere semplicemente boschi o quasi.
Una volta il castagno era come il maiale: non si buttava via niente. Anche perché c’era poco, e quel poco andava usato tutto. Altri tempi. Tempi che ricorda bene Amedeo Calamari di Castagnola in alta Valdaveto: «Qui tutto intorno sono boschi di castagno. Ci facevamo anche le case», spiega Calamari. Già, Castagnola. Nome affatto casuale. Travi e porte del paese sono tutte in legno di castagno. Lo si usa ancora per costruire. «Invece, con le foglie – dice il vecchio abitante di Castagnola -facevamo il letto degli animali». Le castagne, poi, avevano non uno, ma mille usi. Si mangiavano arrosto, come “basturnòn”. O bollite, i “balit”. E pure secche nel latte, tipo biscotti. Ma soprattutto, a Castagnola, si faceva polenta di castagne. Tanta polenta. «La mangiavamo sei giorni su sette», dice ancora Calamari. E il settimo giorno, invece? «Sempre polenta, ma gialla», risponde ridendo il vecchio abitante di Castagnola. Di grano, a Castagnola come in buona parte del nostro alto Appennino, non se ne piantava e se si piantava ne veniva poco: a certe altitudini le rese sono molto basse. «Noi non avevamo farina gialla – spiega Calamari -. Per averla la scambiavamo con la nostra di castagne».
«Il mulino? Me lo ricordo da quando sono nata». Cesarina Calamari sorride. Si macinavano soprattutto castagne, visto che il paese era praticamente immerso tra i castagneti. Poi le macine -tre in tutto – hanno smesso piano piano di girare. Lo stop definitivo è arrivato che era la fine degli anni Sessanta. «La gente era andata via tutta a lavorare. Chi a Piacenza, chi a Genova e chi a Milano.
Ma tra i vecchi paesani è tornata anche la voglia di fare qualcosa assieme. E’ nata un’associazione: “Insieme rilanciamo Castagnola” e si è pensato di sistemare il mulino per recuperare non solo un edificio, ma anche una tradizione che rischiava di andare perduta. «Ecco, lo vede? Prima era tutto sporco, malmesso. Abbiamo fatto tutto da soli», Cesarina lo indica dall’alto. E il mulino finalmente appare: di nuovo solido come la pietra con cui è fatto. Gli interventi sono stati tanti. «Ci pioveva dentro, per cui il pavimento era marcio», spiega Alfeo Cervini, membro anche lui dell’associazione e tra i protagonisti di questa vera e propria opera di restauro. «Abbiamo messo a posto tutto – dice Alfeo – sempre usando il legno, come una volta». E come una volta, si è ripreso anche a fare la farina di castagne.
«I castagneti non li potiamo e puliamo come allora. Siamo pochi e siamo anziani. Ma raccogliamo le castagne a metà ottobre e per prima cosa le essicchiamo per 40 giorni. Facciamo il fuoco ancora con la legna, sa? E non lo lasciamo mai spegnere», dice con orgoglio Cervini. Poi i frutti vengono pelati e fatti passare ad uno ad uno. E infine vengono sbriciolati nell’antica macina a pietra. «Tutto come i nostri antenati», dicono Cesarina e Alfeo. E la gente sembra apprezzare: «A novembre – raccontano sempre Cesarina e Alfeo – organizziamo la festa della macinatura e la farina viene sempre venduta tutta». Speriamo che la macina, questa volta, continui a girare.
Ant. Cav.
(Articolo tratto dal N° 35 del 2/11/2017 del settimanale “La Trebbia”)
Related Posts