Don Federico Boncompagni (+ 1978), è stato parroco di Barchi (Bertone , Bertassi). Di nobile famiglia modenese, era mente acuta, culturalmente elevata, in approccio e sviluppo d’interrelazione sempre bonaria, ispirante immediata simpatia. Nella gestione della sua funzione pastorale utilizzava spesso, parlando e scrivendo, intelligenti metafore ed altre figure retoriche di pregio virtuoso e sottile. Scriveva, infatti, quel grande: “Sensi reconditi, inavvertite punture di spillo, entrano nel lettore, come lievito nella pasta del pane, sviluppando preziosi effetti esistenziali”. Presso Gorreto, al bivio di Barchi e altre varie località della Val Boreca, in Comune di Ottone, don Federico aveva apposto un cartello: “Salite decisi… la meta è Lassù, meritato premio alle fatiche della vostra ascensione!”
E quale premio! Pur rimanendo, per ora, nella sola dimensione terrestre, raggiungiamo Barchi, accolti dal sorriso del sole; luminosi campi, fasce, terrazze e borgo. Ci troviamo sulla sponda destra della Dorbera, talvolta irrequieta per piogge abbondanti ed improvvise. Un solco profondo, tra Alfeo maestoso e Zucchello slanciato. In certi punti quel solco diventa un abisso nelle cui profondità si può ammirare, anzitempo, il sorgere della notte. Il viaggio riprende tra castagneti che presto cedono al faggio e, poco dopo, ai pascoli d’alta quota.
Siamo ora affacciati sul Terenzone, il torrente di Alpe, Fontanarossa, Bertassi… Procedendo il paesaggio diventa meraviglia ed incanto, al massimo grado. Stupisce, genera piacevole turbativa. E’ spesso necessario fermarsi e scendere dall’auto per vedere di più, fruirlo meglio. Pascolano ovunque le mandrie. I vitellini nati sul monte seguono felici le madri in movimento, tra fiori colorati, foglie ed erbe, nella carezza affettuosa di brezze gentili. La valle del Terenzone, nei pressi del passo della “Maddalena”, ci saluta con un suo ultimo bellissimo regalo: suggestioni di mare, per lungo tratto. La verde altalena dei monti, dalle “cime ineguali”, si tuffa negli infiniti azzurri di acque e di cieli lontani.
Uno spettacolo che lascia senza parole.
Il passo della Maddalena ci immette in alta Val Boreca. Scendiamo adagio da 1400 metri di altitudine a circa 1000. Grandi alberi intrecciano rami, formano cortine, elevano cupole: le selve ci invitano alla sosta. Ci ospitano in eleganti salotti, arredati con penombre e frescure. Alcune fonti offrono musicalità delicate, ritmi armoniosi. Riprendiamo il cammino e poco dopo la strada si ramifica in direzione opposte: Suzzi e Pizzonero. Ci dirigiamo a Suzzi. La frazione ci riceve gioiosa: con l’estate la sua gente è tornata. Ha spalancato le finestre all’aria pura e al sole; alla luna e alle stelle degli antenati. Ha aperto le porte all’incontro, all’accoglienza, al dialogo. Si stabiliscono nuove conoscenze. Si rinsaldano, si irrobustiscono antiche amicizie e parentele.
Suzzi si rivela paesino grazioso, pittoresco, suggestivo. Le case si appoggiano le une alle altre attestando forti solidarietà di villaggio. Nessuno è solo e può contare su tutti; tutti contano su di lui. Anche noi, presenze temporanee, veniamo subito piacevolmente coinvolti da quei nobili sentimenti e principi. L’urbanistica suggerisce che i ponti di cui tanto si parla oggi, a Suzzi sono stati costruiti da secoli. Sia in senso figurato, sia in pietra, squadrata con arte, restituita ad originario splendore da manutenzioni rispettose e sapienti. Ovunque ammiriamo “ponti”, ovvero archi, dalle volte ribassate o a tutto sesto tra le case. Quei rustici (perfetti), manufatti rinviano gli archi trionfali delle grandi città: lassù celebrano nel simbolo le vittorie della popolazione su contesto durissimo, spesso molto avverso. Tante generazioni straordinarie che hanno saputo, con enormi sacrifici, trasformare le “selve selvagge” circostanti, in boschi ordinati, pascoli, campi di grano, orti e giardini. Con fasce e terrazze hanno sottomesso i fianchi del monte, trasformandoli, per quanto possibile, in briciole di pianura. Il bue vi accedeva con l’aratro e l’erpice; la zappa e la vanga predisponevano la zolla alle seminagioni. Fatiche immani di uomini ed animali. L’inverno molto temuto per i suoi eccessi, faceva meno paura, con buone scorte, gestite bene.
Suzzi si affaccia sulle sorgenti del Boreca. L’iniziale rigagnolo scorre invisibile nelle profonde rugosità dell’alta valle. Selve esuberanti incorniciano il paese e il suo circondario con fascino misterioso, ispirano magia, turbano, commuovono. Un tempo orsi, lupi, cinghiali ed aquile… erano fauna autoctona, impegnativi (pericolosi) “compagni di viaggio” degli antichi. Di certo i fratelli Grimm; Perrault, Fedro… hanno ambientato racconti e favole memorabili in contesti identici a quelli fruibili a Suzzi. La vegetazione è fitta, si sviluppa in alte cime alla ricerca di luce. Il vento agita le fronde dei faggi. Le foglie, messe in agitazione, simulano l’onda capricciosa, ornata di candida spuma. Un luogo ideale oggi per recuperare equilibri ed integrità di vita, lontani dalla quotidiana corsa frenetica imposta dalla città. Impegni; responsabilità pressanti; scadenze temute.
Cesare Pavese si sarebbe trovato a suo agio a Suzzi, come si ritrovava nelle sue Langhe, spesso raggiunte dallo scrittore anche mediante il semplice pensarle.
La chiesetta in stile romanico rustico è dedicata a San Bartolomeo apostolo. Chiude il borgo quale preziosa gemma di anello prezioso. I caratteri tipici dello stile, nel suo contesto ambientale, invitano e favoriscono l’introspezione, l’intima ricerca del trascendente, il colloquio con l’infinito, la riscoperta di se stessi. I suoi muri, le sue pietre parlano, se sappiamo ascoltarle. Ci raccontano timori e speranze degli antenati; consolazioni e grazie elargite dal Cielo…
In paese, una casa antica, recentemente restaurata con tecnica filologica, è detta “canonica”. .. Mi riservo di approfondire la Storia di Suzzi e della Val Boreca, in ulteriore, autonoma pubblicazione.
Forse il Sacerdote che nel 1800 scelse Suzzi quale sua sede, era interessato a religiosità che solo la natura selvaggia, moderata da grande umanità, consente. Eppure si trattava di un giureconsulto, come recita l’epitaffio sulla sua lapide. Un personaggio, dunque, d’importanza che avrebbe potuto aspirare a dignità ed onori, operando in grandi cattedrali. Ma Suzzi, con boschi e selve, è già in sé spontanea, magnifica Cattedrale.
Attilio Carboni
(Articolo tratto dal N° 33 del 13/10/2016 del settimanale “La Trebbia”)
(Fotografia di Giacomo Turco)
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