ll Monastero pavese di San Pietro in Ciel d’Oro ebbe giurisdizione feudale, diritti e interessi, su vasti territori sparsi nelle attuali regioni di Lombardia, Emilia, Liguria, Piemonte. Ovvero Val Trebbia, Aveto, Borbera, Staffora di cui al comprensorio delle “quattro province”, all’interno del Regno dei Longobardi, avente in Pavia la sua capitale (VIII secolo).
I RE LONGOBARDI E SANT’AGOSTINO
Nell’ottavo secolo il re longobardo Liutprando recuperò le reliquie di Sant’Agostino, in pericolo di dispersione ed oblio. La Basilica pavese di San Pietro in Ciel d’Oro fu costruita proprio per accoglierle degnamente.
Liutprando, generoso anche con Bobbio e il monastero di San Colombano, dotò la Basilica di Pavia di molti beni, territori e titoli; giurisdizioni e rendite.
Un apposita Istituzione, per altro assegnata in gestione ai monaci bobbiesi, adiacente alla Basilica, con annessa alta scuola teologica, avrebbe diffuso lo studio del pensiero agostiniano. Si sarebbero riprodotti i suoi libri, ancora oggi validi e solida base della nostra civiltà. Ivi sarebbero stati accolti i pellegrini in visita e chiunque fosse arrivato in città per ragioni di studio, di cultura e fede.
Tra le proprietà attribuite al Monastero di Pavia, per trarne risorse agli scopi di cui sopra, c’erano ampi territori, per lo più selvaggi, innanzitutto da bonificare e rendere produttivi. Se ne trovavano lungo la Staffora, Varzi e dintorni; dell’Avagnone, poi con Organasco e il suo ponte; Zona di Ottone, Orezzoli, Vicosoprano, Alpepiana… e via via verso la riviera ligure.
All’arrivo dei religiosi di Pavia e al tempo dei primi abitanti di Orezzoli (VIII secolo), non è diflicile immaginarne sfondi e scenari. Natura molto ostile, selve quasi impenetrabili.
Clima che passava dal torrido estivo, al ventoso e nebbioso delle mezze stagioni. Esistenze tribolate quelle della nostra gente, sempre e comunque.
Sfogliando documenti dell’alto Medioevo s’incontrano spesso, relativamente alle valli dell’Aveto/Trebbia, nomi di animali utilizzati per indicare persone e famiglie (Orso/i, Lupo/i, Volpe/i ed anche Leone). Di certo gli antichi dovevano mettere in conto difficili convivenze con orsi, lupi, cinghiali, aquile, serpenti vari ed insidiosi.
LO XENODOCHIO DEL MONTE DEGO
Orezzoli, verosimilmente, fu sede di “cella” monastica alle dipendenze di Alpepiana (dal secolo VIII). Come proprio di quel sistema religioso, economico, sociale, non può non aver visto sorgere una chiesetta (allora oraculum).
E’ ammissibile pensare che tale edifcio possa essere sorto dove si trova l’antica chiesa parrocchiale, ora (purtroppo!), rudere. Edificio costruito, ampliato, abbellito dai figli di Orezzoli chissà quante volte negli oltre mille anni della sua antichissima storia. Conforto e slancio a tante generazioni, chiamate a vivere in un contesto ambientale durissimo.
Accanto alla Chiesa (nelle sue vicinanze, secondo la tradizione), sarebbe stato attivo uno xenodochio. Gli xenodochi, ovunque in Europa, sorgevano lungo gli impervi itinerari di monti e valli, quali sostegno al transito di antiche vie. Ancora qualche anno fa, ovunque sui nostri monti, si temeva il “provino”: tormenta di neve sottile e ghiacciata, capace di soffocare ed uccidere. Si accumulava di qua e di la, senza riguardi, tra le case, davanti alle porte. Chiunque fosse stato colto da una tale bufera lungo il cammino difficilmente sarebbe sopravvissuto se non avesse potuto appoggiarsi a qualche xenodochio. Di certo, tra val Trebbia ed Aveto, vi era quello di Orezzoli.
LA CHIESA ANTICA DI SAN PIETRO IN OREZZOLI
San Pietro apostolo è il titolare della omonima Basilica di Pavia, ed anche della Parrocchiale di Alpepiana, forse a richiamare collegamenti, relazioni, dipendenze dell’una e dell’altra con il territorio di Orezzoli. In quanto edificio la notizia storica più antica risale al XV secolo. Ai tempi del parroco don Albino Ghigliani (1903-1990), un’epigrafe su formella di marmo, posta sulla parte retrostante dell’altare, ancora recitava: “In la villa de Orizio A.D.MCDLXXXVIII” (altare della Chiesa nella “villa” di Orezzoli consacrato nell’anno del Signore 1488).
Nell’archivio parrocchiale di Ottone diversi documenti attestano giurisdizioni temporanee o durature, fatti, eventi. Da un registro delle Chiese che pagavano le decime alla Santa Sede, datato 1523, si viene a sapere che nella Plebania di San Marziano di Ottone prete Guglielmo Muzio, sovrintendente della Cappella di San Bartolomeo, in unione con altre 3 parrocchie, “ut fertur sine redditu (temporaneamente senza reddito)”, nello specifico San Giovanni Battista “de Trasco”; San Martino “de la Villa (Gramizzola o Ravilla)” e San Pietro “de OLEZIO”, ha raccolto scudi 70.
In occasione del Sinodo Diocesano indetto da Mons. Maffeo Gambara, Vescovo di Tortona nel 1595, si legge: “Alla chiesa parrocchiale di Ottone è stata unita la Chiesa di San Pietro “de Orezii”. Anche Mons. Cesare Bobbi (1863/36), vicario generale della Diocesi di Bobbio, scrive nella Storia Ecclesiastica Diocesana: “La Chiesa di Ottone, plebana di antiche origini, nel XVI secolo incorporava la Chiesa di Orezzoli.
La Chiesa vecchia di San Pietro dovrebbe risalire al XV secolo, stando ad una lettura delle pregevoli linee architettoniche sopravvissute al degrado. L’interno è un’unica aula scandita da lesene delicate ed armoniose che incorniciano gli altari del piano plebano. Nell’uno e nell’altro caso muratori locali dalle straordinarie manualità e buon gusto, a distanza di secoli continuano ad essere apprezzabili per la loro arte: grandi maestri da studiare.
L’altare maggiore, tra presbiterio e coro, come di norma, sovrastava leggermente piano plebano e presbiterio con bel disegno (ancora fruibile mezzo secolo fa). Il tetto è crollato da tempo, ma alcuni archi trasversali sfidano audaci l’abbandono ed attestano la perizia degli antenati nell’uso virtuoso della pietra. L’interno è ridotto, purtroppo, a misero “raccoglitore” dello sfacelo, tristemente decorato con qualche cespuglio esuberante, quello sì, ma solo di spine ed ortiche. Eppure in quella Chiesa si sono ritrovati, per oltre un millennio, i vivi e i morti di Orezzoli, affratellati dall’essere; essere stati e divenire.
CONCORSO DI TUTTI I PARROCCHIANI AI RITI RELIGIOSI
Nella testimonianza di Giovanni Malaspina (artistico operatore del vetro istoriato, di Milano) alla messa della domenica non è mai mancato nessuno: dai vari borghi giungevano vestiti a festa i genitori con i figli in braccio o per mano, i nipotini. Le ragazze di tutte le età con l’immancabile “velo”, a copricapo molto personalizzato (non ce n’era uno uguale ad un altro), arricchivano piacevolmente l’andamento dei riti. Anche quell’espressione di effimero apparente era grande religione, rispetto, regola. Spesso le bellissime voci di Orezzoli si recavano, molto apprezzate, nelle altre parrocchie della valle, dopo continuativo e riuscito esercizio in loco per ben figurare.
Quelle vecchie pietre parlano e raccontano, sommesse, cose stupende. Prestando attenzione, si riesce a percepire eco flebile, delicato, commovente di spiritualità spontanee, sincere, profonde.
L’ANTICA CHIESA DI SAN PIETRO, SEPOLCRETO DEI MARCHESI MALASPINA
Il sottosuolo, interno ed esterno alla vecchia Chiesa di San Pietro, era il sepolcreto degli antenati. I Marchesi Malaspina, feudatari del luogo dal XII secolo, ivi ebbero l’avello di famiglia, come attesta la lapide sepolcrale, traslata poi nella nuova Chiesa. L’epigrafe è molto interessante: SEPULCRUM.D.MARCHIONUM DE MALASPINA CONDOMINORUM PHEUDI JMPERIALIJ OREZOLI. (Sepolcro dei Signori Marchesi Malaspina Condomini del Feudo Imperiale di Orezzoli). Risale probabilmente alla fine del XVII secolo, principio del XVIII, come rivela il tratto sinuoso e delicato dell’Aquila bicipite (ali, corona marchionale, penne della coda), cornice e sfondo all`emblema della famiglia Malaspina e chiaro riferimento al Sacro Romano Impero. La disposizione e le linee di simboli ed indicatori vari, riportati all’interno dello stemma lunetta, altra aquila bicipite, un’aquila semplice e un leone rampante…), rafforzano la fondatezza della presunta datazione.
Lo stemma della vecchia Chiesa di San Pietro richiama la parentela tra loro di tutti i Malaspina di Orezzoli (di qua, di la; frazioni varie e diffuse), oggi ovunque dispersi. Li rimanda agli avi comuni, Principi medievali e moderni ch’ebbero responsabilità amministrative, morali, storiche sulla loro “confederazione” dell’Aveto/Trebbia. E seppero farsene carico con dignità ed onore, scrivendo con la penna dei fatti ottime pagine politiche ed amministrative.
AUSPICI CONCLUSIVI
Un ambiente tanto straordinario per antichità, espressione del sacro, memorie dei marchesi Malaspina, riferimento a molte generazioni di principi, sudditi e credenti; catalizzatore e registro di stati d’animo, sentimenti ed emozioni varie, infinite, non si deve abbandonare al disastro, al “nulla eterno”. La vecchia Chiesa di San Pietro é una pagina gloriosa di civiltà, non solo locale, che non può, non deve essere strappata e buttata via. Potrebbe non rimanere più nulla. Ma “Quel Manufatto” è un indispensabile segno della nostra storia, particella della Grande Storia dell’intero Occidente. E’ necessario, dunque, asportare in fretta le macerie dell’interno; mettere in sicurezza i ruderi (muri perimetrali, facciata e altare); fortificare gli archi trasversali… Si potrà così restituire alla religione, all’arte, ad Orezzoli; a turisti e studiosi, un luogo speciale per quello che è stato; utilissimo, per quello che potrà continuare ad essere.
Noi, nuovi pellegrini del terzo millennio, spesso disorientati potremo cosi ritrovare alcuni degli indicatori esistenziali degli antenati. Chiaro, collaudato, costruttivo viatico, sempre valido.
Attilio Carboni
(Articolo tratto dai N° 3 del 22/01/2015 e N° 4 del 29/01/2015 del settimanale “La Trebbia”)
(La prima fotografia in alto a sinistra é di Giacomo Turco)
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