In Ottone si incrociavano molte delle antiche mulattiere dell’alta valle e nei pressi del castello transitava l’importantissima strada Piacenza/Genova con parte dei traffici e commerci delle due città. Fonte di ricchezza a vario titolo in quanto incontro, confronto, dialogo; accoglienza, sostegno, supporto; acquisti, vendite, baratti; intuizioni, iniziative, sviluppi.
“La strada per Genova (o per Piacenza)”, a difesa e controllo degli uomini e delle merci in transito, venne costellandosi di castelli signorili (Gorreto, Ponte Organasco, Bobbio); fortilizi di vario genere (Campi, Catrebbiasca, Croce, Pietranera, Rebroio, Traschio); torri di avvistamento (Zerba, Montarsolo); garitte di sorveglianza (bellissime e ben conservate quelle tra Ponte Organasco e Ponte Lenzino. Sorsero nuovi paesi, aumentò la popolazione, divenne fiorente l’economia di tutta la valle. Le antiche carte cominciano a parlare del “Caminus Januae” nel X secolo. La “Via per Genova” si sviluppa e cresce in importanza coll’espansione della civiltà comunale nel nord Italia, la decadenza dei feudi, il sorgere della borghesia e dello spirito imprenditoriale che la caratterizza.
In “servizio attivo” per circa un millennio, comincia a cadere nell’abbandono a partire dalla metà del XX secolo, effetto della crescente crisi demografica della montagna e della dissoluzione della civiltà contadina tradizionale. In alta Val Trebbia permangono (ancora per quanto?), diversi reliquati del vecchio percorso, con qualche affanno giunti fino a noi. Storici indicatori e testimoni di epoche lontane, incuriosiscono e coinvolgono.
Nella zona di Traschio/La Cà (Ottone), “sopravvivono” due ponti (a rischio caduta per nullità di manutenzione ed opportune cure), a scavalco dei rii Magliato e Ronchetti. In perfetto stile romanico assemblano pietre squadrate con arte mediante semplice, ma funzionale incastro, senza uso di qualsivoglia legante, tranne esile filo; deboli grumi (ora), di calce locale a rimedio di lacune via via intervenute; bonifiche posteriori, vari secoli.
Tra Fontanigorda e Casanova si trovano altri due ponti di notevole valore tecnico ed estetico. Il più noto ed importante collega le due sponde di rio Pescia, in località Canfernasca. Impostato nello stile romanico (tutto sesto), trascende nello stile gotico (arco sottile e leggero; ampia estensione della corda), con piacevole riverbero di forza e bellezza. Esuberanti cortine di piante ed erbe, una cascata di candida spuma, lo incorniciano ed animano “trasecolando” lo stupito fruitore in magiche dimensioni ed armonie. Vicino al ponte, sulla sponda sinistra del torrente, sorge una costruzione di pregio in pietra a vista: l’antico mulino. Mulino e Ponte si associano in quel luogo tanto gradevole a didattico/didascalico compendio; esempio, visualizzazione e memoria, delle fondamentali invenzioni della nostra civiltà. Mediante il ponte, infatti, gli antichi riuscirono finalmente ad emanciparsi dagli umori delle acque sottostanti. Con la costruzione del mulino la stessa acqua, talvolta molto pericolosa, perché ribelle e selvaggia, è stata domata e costretta, in modo inderogabile e continuativo, a girare e rigirare rassegnata la ruota della farina e del pane. Uomini ed animali sono stati così sollevati da gravi fatiche ed hanno reso disponibili nuove energie per altre imprese. Canfernasca è un ambiente tra i più singolari e interessanti della nostra Val Trebbia Ligure/ Emiliana. Merita una trasferta: il fruitore ne sarà di certo soddisfatto.
Orezzoli, frazione di Ottone in Val d’Aveto, è un insieme composto da numerosi borghi, posti sulle due sponde del rio Colombara. Sponda sinistra, Orezzoli di qua, con Orezzoli propriamente detto, Le Inguie e Mulini. Sponda destra, Orezzoli là, ovvero Bussego, Casa del Fabbro, Monte Soprano, Grattarone. Piccole isole appena emergenti sul verde mare delle circostanti selve vigorose. Le foglie degli alberi, agitate dalla brezza e dai venti, simulano l’onda capricciosa, flagello o carezza ad uomini ed animali; case; cose.
Una ragnatela di mulattiere, provenienti da Ottone e Cerignale, univa i vari centri per muovere poi, tornata filamento, verso il monte Dego e il genovesato; oppure in direzione di Vico Soprano, Alpepiana, Santo Stefano d’Aveto, il monte Penna e il parmense.
Il rio Colombara era molto temuto da viaggiatori e residenti a causa delle sue colleriche e spropositate piene improvvise, specie in occasione di temporali estivi. Solo un guado permetteva, infatti, alla mulattiera tra i due Orezzoli, l’attraversamento del modesto corso d’acqua (a regime normale).
Il bestiame al pascolo poteva venir sequestrato sull’opposta sponda, rispetto alla sua stalla, anche per diversi giorni, nella disperazione dei proprietari. Quando finalmente nei primi anni ’50 del secolo scorso venne costruito dal Comune di Ottone l’attuale ponte in cemento armato i valligiani ritrovarono una serenità mai fruita da tante precedenti generazioni. Ma la civiltà rurale era al tramonto!
Come da consuetudine le manutenzioni ordinarie e straordinarie alle varie mulattiere (principali e secondarie), erano affidate alla popolazione, secondo precisi tratti e modalità di competenza. Io stesso ricordo squadre di Ottone Soprano al lavoro.
Si raccoglievano pietre lungo i torrenti per ricostruire muretti di contenimento e rendere pienamente efficienti i selciati; si tagliavano rami invadenti.
La mulattiera diretta a Ottone Soprano -da Ottone inferiore), era un capolavoro di tecnica stradale a distanza perfettamente calcolata creste sporgenti rispetto al ciottolato, inclinate verso eccellenti collettori laterali, consentivano il corretto deflusso delle acque piovane. Permettevano, inoltre, al bue, al mulo di ancorare con sicurezza lo zoccolo, evitando di scivolare con relative nefaste conseguenze. Il pericolo era in agguato ad ogni passo. Alcuni tratti della mulattiera sono rimasti pressoché integri e si possono rintracciare con facilità. Altri reliquati, con salute incerta, appaiono lungo la mulattiera che da Croce di Ottone sale a Foppiano, Pietranera, passo del Montarlone. L’antichissima via che da Ottone si inerpica verso Truzzi, Campi, Bertone, Pizzonero presenta ancora attiva, tra Truzzi e Campi, una delle tante fontane destinate a dissetare uomini ed animali.
I secoli l’hanno ricoperta di muschi, di licheni. Intorno l’equiseto distende ed allunga singolari rami/foglia e il capelvenere, verdissimo e sparso, rimanda ad antiche liturgie pagane. Il polipodio, felce ricercata dai pastorelli perché il suo rizoma simula il sapore dolciastro della liquirizia, prospera, ora abbondante, all’ombra fresca del bosco. L’acqua corrente della fontanella nasce da pietra viva ed ha inciso la roccia come il solco di un vecchio disco in vinile: se ne avverte, avvicinandosi, il canto gentile, delicato, molto piacevole. Richiamo liberatorio nella calura estiva; nella durezza della salita, nella preoccupazione dell’arrivo ad impegnative lontane destinazioni. Quella musica avrà, di certo, accelerato il passo stanco del viandante e degli animali suoi compagni di viaggio, bisognosi; finalmente, di sollievo e sosta.
Le mulattiere, specie in prossimità dei villaggi, trivi e quadrivi, luoghi suggestivi, ambienti deputati ad espressione di voti, pubblici e privati… presentavano Cappelle con immagini della Madonna e dei Santi (Rovegno, Garbarino, Campi; Madonna delle grazie a Coniolo di Gramizzola, Madonna dell’aiuto a Toveraia di Ottone).
Segni sacri nei giorni di rogazione; piccole porte e finestre spalancate sull’infinito; segnaletica orizzontale e verticale sicura per gli uomini della civiltà rurale, religiosissimi. Presso i vigneti, a ridosso delle mulattiere, sorgevano i “casoni”, edilizia attrezzata per la produzione del vino; il ricovero del bestiame al pascolo.
I casoni fornivano importante appoggio alla famiglia contadina nei tempi di vendemmia e di raccolta di prodotti, coltivati o spontanei, dalle fasce e terrazze circostanti (castagne, ghiande, fogliame, frutti silvestri). Molti casoni sono andati in rovina, ma erano stati concepiti e realizzati con molta perizia e buon gusto (zona di Ottone Soprano, Gramizzola, Cattaragna, Orezzoli, Tartago e Val Boreca). Altri sopravvivono come possono, loro “dì tardo traendo”.
Lungo il cammino non mancavano, purtroppo, croci, poste da mani pietose a triste ricordo di viaggi, in quel punto per sempre interrotti.
I resti delle antiche mulattiere riscontrano indicibili fatiche di uomini ed animali, sono “pezzi” millenari di storia della valle. Venerabili monumenti; testimonianze preziose, provenienti da tanto lontano (nel tempo e nello spazio), non dovrebbero andare perduti. Segnalo in particolare una incredibile pietra/impronta nel ciottolato della mulattiera per Torrio (provenienza Santo Stefano d’Aveto), in località Valle Tribolata, molto significativa per la lettura del nostro passato, quindi di noi stessi. I muli, in un difficile tratto in forte ascesa, la martellarono a tal punto con il ferro dello zoccolo in ricaduta, da imprimervi, col tempo, quale fosse stata morbida cera, il sigillo del loro sforzo.
Il “bassorilievo dello zoccolo” è un’opera d’arte straordinaria: merita di essere resa nota, vista, conservata; spontaneo emblema di tutta la civiltà contadina (1). Sulle principali mulattiere passavano spesso slitte ricolme di merci, trainate dai buoi aggiogati, a divisione di pesi e fatiche. Qualora due convogli si fossero trovati uno di fronte all’altro cominciavano i guai. L’ampiezza della “carreggiata” non sempre permetteva il movimento nelle due direzioni di marcia: era allora necessario arrampicarsi sugli specchi al fine di superare la strozzatura di fatto. Un grave supplemento di lavoro per uomini ed animali, compiuto nella preoccupazione e nel timore . Si dice che la civiltà rurale anche in tale circostanza abbia saputo applicare con saggezza le virtù delle “3P”: pazienza, prudenza, perseveranza. Virtù conquistate dagli antenati sul campo, attraverso enormi sacrifici nel corso dei millenni. Mi auguro di aver ereditato almeno una particella di quel viatico, sempre utilissimo, anzi, indispensabile, nelle vicissitudini della vita. Le più importanti mulattiere dei nostri paesi erano oggetto di molta cura. Nulla era lasciato al caso e all’improvvisazione. Oltre alla puntuale manutenzione ordinaria e straordinaria di cui si è detto, ogni frazione doveva fronteggiare emergenze e, quanto prima, ripristinare il transito. Ottimamente organizzato era il servizio di sgombro neve sul tratto di pertinenza. Ricordo gente di Fabbrica, Frassi, Moglia operare in tal senso.
Le nevicate (allora abbondanti), diventavano occasione di più forti solidarietà di villaggio, comunione d’intenti, socializzazione; pratici risultati, compiacimento ed autocompiacimenti. Ho visto passare sulle nostre mulattiere, in ogni stagione, giovani e meno giovani delle frazioni diretti ad Ottone. La gioventù chiamata alla “leva”, alle risaie del vercellese, al lavoro in città. Ho osservato bestiame condotto al mercato; ambulanti con l’asinello o il mulo; ragazze (provenienti soprattutto dalla Val d’Aveto), nei giorni di fiera con cesti di fragole, lamponi, mirtilli. Risento l’aroma dei fasci di origano (cornabugia), ingrediente destinato ad insaporire stufati e semplici focacce (oggi elaborate “pizze”); timo (romanino), indispensabile agli intingoli; Elicriso (squassina), molto utile alla pulizia dei forni, all’igiene della casa. Ricordo l’offerta delle ricercate radici di genziana lutea, come da universale credenza, “panacea” assoluta. Contemplo il ritorno in paese di cercatori di funghi con ricco bottino… subito circondati da tanti, curiosi di vedere, di sentire.
Talvolta, dal territorio di Favale di Malvaro, in Riviera di Levante (val Fontanabuona), superando il passo della Scoglina, molto duro, Barbagelata… Monte Dego giungevano a Ottone venditori di fichi secchi, “dolcezza” della riviera. Il carico era raccolto in un “valletto” (cesto di vimini itrecciati), appollaiato sulla testa, come un cappello a larghe falde. Rivedo quegli uomini cotti dal sole, sudati e stanchi: speriamo, almeno, abbiano realizzato buoni affari. Ho sentito parlare della nostra gente, specie i residenti della sponda sinistra della Trebbia (Campi, Barchi, Fontanarossa, Zerba…), che si recava normalmente in val Borbera, a piedi o col mulo, carichi dei loro prodotti (formaggio, burro, piante medicinali ed aromatiche, carbone di legna), da proporre in vendita a Carega e Cabella, località liguri in Piemonte.
Ricordo, purtroppo, anche ammalati, trasferiti mediante scale/barelle. Erano adagiati su miseri pagliericci, coperti con vecchi, poveri panni-grigie, logore lane, circondati da familiari in ansia. Quelle tristi processioni evidenziavano l’atavica sofferenza della nostra montagna, sempre incombente, ovunque, comunque. Un mondo oggi lontano da non dimenticare, ma da conoscere e considerare quale doveroso atto di rispetto verso la vita (durissima), degli Antenati; utile insegnamento (speriamo), per quella dei discendenti.
Attilio Carboni
(Articolo tratto dai N°19 del 29/05/2014 e N° 20 del 05/06/2014 del settimanale “La Trebbia”)
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