L’antica Chiesa di Santo Stefano, con annessa casa canonica, nei pressi di Selva, Comune di Cerignale, è ridotta a un rudere, sommerso da piante invadenti ed erbe, tra cui vigorosi cespugli di sambuco che sempre prosperano in mezzo alle rovine e all’abbandono. Il degrado ha avuto origine da parziali assestamenti del suolo, intorno alla metà del secolo scorso e di recente un fulmine ha colpito l’artistico campanile in pietra a vista, rimasto integro fino ad allora, riducendolo ad un mozzicone informe.
Una triste immagine d’insieme che amareggia tutti, specie chi ne ricorda tempi migliori. Tempi in cui la nostra montagna era ancora forte: residenti attivi e numerosi, tanti bambini, campi coltivati con cura; animali al pascolo; chiare collaudate tradizioni, amicizie, parentele, solidarietà, Religione. Suoni di campane nella valle, trasferiti da brezze sapienti, erano rintocco puntuale, affidabile, piacevole delle ore del cielo e della terra. Da anni, purtroppo, quei suoni non si sentono più.
Ma quanto inteneriva e commuoveva percepire “squilla di lontano”, specie al tramonto “che paia il giorno pianger che si more”! In molti ne abbiamo nostalgico ricordo che alla vista di quei ruderi, più acuto “punge” e coinvolge.
La Chiesa di Santo Stefano era stata costruita in posizione centralizzata rispetto alle frazioni Cariseto, Rovereto, Selva e Lisore, costituenti l’unità parrocchiale. Compresa nel sistema viario dei secoli passati, annodava le mulattiere tra Aveto/Trebbia e costituiva un punto sicuro di riferimento e sosta per mulattieri e viandanti. Secondo il Pollini (Storia della Diocesi di Tortona), si tratta di Pieve ab immemorabili, cioè sede prestigiosa e antichissima. Mons. Cesare Bobbi (1863/1936), Vicario Generale e storico bobbiese, la riteneva sorta per scissione (smembramento), da Alpepiana, in data non precisabile, ma molto remota (Storia Ecclesiastica Diocesana, parte II fase. I; Pievi e Parrocchie di Bobbio, Saronno 1921). Nello scarno archivio di quella Chiesa Mons. Bobbi aveva rinvenuto un registro dei battesimi risalente al 1585: il documento più antico che fosse stato conservato in loco.
Di Selva si parla spesso, invece, nelle carte di Ottone (inferiore), alla cui Pieve era saldamente collegata, a partire dal XVI secolo. Luna e l’altra in Diocesi di Tortona, con Orezzoli, Cerignale e Carisasca (parrocchia dal 1744, per scissione da Cerignale). Ottone Soprano e Fabbrica, dipendenze della Pieve di Montarsolo, da sempre si trovavano e rimanevano in Diocesi di Bobbio, quantunque strette dal territorio tortonese, perché ex possessi dell’Abbazia di San Colombano in alta valle, fin dalle sue origini nel secoli VII.
In un registro delle Chiese che pagano le decime alla Santa Sede si legge (traduciamo dal latino): “Chiesa dell’Invenzione di Santo Stefano di Selva, retta da prete Stefano di Ottone, associata alla Chiesa di Sant’Andrea di Oneto”. Il registro data 1523 e fa riferimento all’Arciprete Guglielmo Muzio, titolare della Plebania di Ottone, incaricato (probabilmente) della funzione di collettore delle decime, raccolte dalle Chiese suffraganee.
Altro registro, qualche anno dopo (1543), conferma l’attribuzione delle Chiese di Selva in Val d’Aveto e di Oneto in Val Trebbia alle cure di prete Stefano. Ancora si cita la parrocchia di Santo Stefano in Selva, sempre unita alla parrocchia di sant’Andrea di Oneto, durante il Sinodo Diocesano Tortonese, celebrato dal Vescovo Maffeo Gambara il 21 aprile 1595.
Nel 1576, in occasione della visita apostolica in Val d’Aveto/Trebbia, compiuta da mons. Girolamo Ragazzoni, Vescovo di Famagosta in Cipro e, dopo la conquista dei Turchi, fatto vescovo di Bergamo, si evidenzia, a proposito di Selva: “Manca la casa pel Parroco (allora, tale prete Colombo), da fabbricarsi presso la Chiesa. Relativamente ad Oneto si prescrive: “Chiesa di Sant’Andrea unita alla sopraddetta: si copra di tegole invece di paglia e, intanto, non si celebri in essa se non per l’occasione di portare il Santissimo a qualche infermo vicino”.
In un registro conservato nell’Archivio di Ottone, iniziato con l’Arciprete Carlo Antonio Nobile nel 1673 e concluso dall’Arciprete Pellegrino Balzarino (vedere l’articolo: Le tre Chiese di Ottone, settimanale La Trebbia n. 42 del 3/12/2009; Internet, www.altavaltrebbia.net, idem), sono elencate le Chiese dipendenti dalla Pieve di Ottone. Tra quelle, per la prima volta, si cita Cariseto, in luogo di Selva. Nel 1690 era Rettore di Selva (Cariseto), prete Francesco Muzio, (dal manoscritto di Mons. Stefano Barbieri (1866/1956), Arciprete di Ottone: “inventario dei documenti dell’Archivio parrocchiale”, pag. 56 e seguenti).
Aggirandosi (con prudenza), nei pressi delle rovine, i ruderi svelano la perizia costruttiva e gli stratagemmi tecnici messi in opera da ingegnosi muratori, figli di quella terra, per simulare una certa opulenza di mezzi ed esprimere qualità di risultati, come la volta della Chiesa “a botte”, apparentemente in pietra, ma di fatto una struttura in legno, per altro ben congegnata, con superficie d’intradosso in canne ad intonaco colorato.
Colpo d’ala di comprensibile orgoglio civile e religioso; massimo compromesso possibile tra desiderio di ben figurare con le altre parrocchie e limiti evidenti di concrete disponibilità finanziarie e strumentali, pur in un profondo contesto di operosa spiritualità. L’assestamento del suolo ha risparmiato la facciata della Chiesa che è bellissima! Una facciata che rimanda con proprietà e immediatezza al tempio greco classico a cui l’architetto nel concepirla si è certamente ispirato e con successo.
Un vero e proprio capolavoro, espresso mediante virtuosismi di pietre squadrate con arte; lesene, con base e capitello, leggere, slanciate; felice proporzione del portale, rispetto agli altri elementi architettonici e alla superficie complessiva. Le lesene sostengono trabeazione molto elaborata, come tutta la cornice del frontone nel suo complesso. Il timpano è a triangolo semplicissimo, coincidente con lo spazio tra gli spioventi.
A fregio del colmo del tetto (l’acroterio greco), c’era una elaborata Croce, forse in ghisa stampata, rimossa da molti anni. Sopra il portale si trova la nicchia di rito, sede della statuetta del Santo titolare, sempre pronto ad accogliere ospiti, a salutare frettolosi viandanti, benevolente sulla porta di Casa Sua. L’apertura a semicerchio della facciata, una specie di rosone, richiama le lunette dei muri laterali, figure ricorrenti piacevoli e funzionali, di minor dimensione.
La facciata è un’opera grandiosa, solenne, molto armoniosa che predispone l’osservatore alla dimensione del sacro, alla straordinarietà del luogo, a pensieri profondi. Un portone robusto e patinato d’antico (ora non più reperibile), aggiungeva prezioso contributo d’ornamento e decoro. A Selva era stata scritta, non del tutto ancora cancellata, un’apprezzabile pagina di storia dell’arte!
All’interno, ambiente ampio e un tempo imponente, a navata unica dai colori morbidi di tenue pastello, si è salvato, vero miracolo, qualcosa di uno solo degli altari laterali: mensa, colonne tortili. Sono integri, inoltre, tre splendidi archi trasversali, a tutto sesto, geometrie perfette, da sé soli monumento alla manualità magnifica rigorosa, essenziale della montagna, al buon senso, al buon gusto degli antenati.
Sugli archi appoggiavano le travi maggiori dalle quali si irradiavano le travi minori, formando l’ossatura del tetto. L’arco principale, un tempo detto “trionfale”, alto tra piano plebano e presbiterio, il più importante degli archi in una Chiesa, presenta la didascalia: “PAVETE AD SANCTUARIUM MEUM” (Levitico 26, 2) e, cioè, PORTATE MOLTO RISPETTO ALLA MIA CASA (traduzione secondo riferimenti attuali).
La scritta a grandi caratteri, non avendo subito alcun danno e rimosso il portone d’ingresso, è visibile dall’esterno. Il resto del tetto, il presbiterio e l’abside sono irrimediabilmente perduti. La didascalia sembra sfidare l’impossibile per continuare a dirci che quell’ammasso disordinato di pietrame, calce, legname marcescente è stato la Casa di Dio e, quantunque da tempo sconsacrata, deve essere sempre considerata degna di sincero rispetto.
Là per secoli si sono ritrovati gli antenati delle varie frazioni, nei momenti lieti o tristi di singoli o dell’ intera comunità. Di certo le pietre ne hanno assorbito i sentimenti, le emozioni, gli stati d’animo ed anche per questa ragione quei miseri resti sono preziosi e venerabili. Là dentro molti animi “sono tornati sereni”; non pochi fedeli hanno ricavato senso e direzione positiva di vita, di relazione, di più felice prospettiva.
La scritta: “PAVETE AD SANCTUARIUM MEUM”, ovvero, “PORTATE MOLTO RISPETTO ALLA MIA CASA “, non è casuale. Un tempo tutte le Chiese facilitavano l’approccio all’infinito con versetti estrapolati dalle Sacre Scritture e collocati in posizioni strategiche, utili a orientare psicologicamente il fedele verso la relazione con la divinità, per quanto ad ognuno possibile.
La porta d’ingresso della basilica di S. Colombano a Bobbio è sovrastata da un cartiglio con la scritta “TERRIBILIS EST LOCUS ISTE” (Genesi XXVIII, 17), ovvero, “questo luogo è degno del massimo riguardo, poiché altro non è se non la Casa di Dio e la porta del Cielo”. Tanto nella grande Bobbio, come nella decentrata chiesetta di Santo Stefano in Selva, o altrove, si proponeva (e si continua a proporre), indistintamente, “formidabile segnaletica verticale”, utile ai difficili viaggi dello Spirito.
Scriviamo queste cose perché riteniamo che la storia della nostra gente, non possa essere messa a fuoco e compresa, in senso, estensione, complessità, se non passando anche attraverso dettagli, solo in apparenza labili o poco comprensibili oggi, suggeriti dal massimo riferimento disponibile allora: il Sacro.
L’uomo dei secoli passati, nel pieno della civiltà rurale dei nostri monti, era immerso nella religiosità e nel mistero. Lo assorbivano i fenomeni e i miracoli della natura a cui di continuo assisteva: dall’uovo, a lungo covato da chioccia paziente, si affacciava alla vita il pulcino; il seme diventava foglia, fiore, frutto, davanti a occhi stupiti ed ammirati. Il tempo scorreva rivestito dalla somma delle stagioni e il sole confortava col risorgere puntuale dopo ogni tramonto. Impensieriva, però, la precarietà e la durezza dell’esistenza, l’incombente sera di ogni vita.
Il prima e il dopo, il già e non ancora, turbavano e intimidivano, ma la Religione rincuorava e sosteneva, offrendo Sacerdoti, Chiese, Liturgie, Iniziative, ovvero Uomini, Spazi, Occasioni, Opere di elevazione, conforto, sostegno, trascendenti contingente e soggettivo. Ecco perché le rovine della chiesa di Selva vanno considerate con riguardo, sono degne di rispetto, è necessario preoccuparsene.
Quella Chiesa ha rappresentato moltissimo per coloro che ci hanno preceduto. Bisogna, quindi, evitare, finché possibile, che “involva tutte cose l’obblio nella sua notte”. Dopo sarebbe più buio anche per noi. Purtroppo! Mettiamo, dunque, in sicurezza la facciata della chiesa e quel poco che rimane del corpo di fabbrica, altare sopravvissuto, archi trasversi e didascalia: anche un reliquato può suscitare posizioni di straordinario valore esistenziale ed essere prezioso rinforzo e accompagnamento nel “viaggio” di chi è, di chi sarà. Come un manufatto ben conservato; e, talvolta, anche meglio!
Invitiamo i lettori a percorrere, durante l’estate, la panoramica strada sullo spartiacque Aveto/Trebbia, nel Comune di Cerignale e di Ottone, tanto ricca di stimolanti suggestioni ambientali, possibili sviluppi, estetiche contemplazioni.
Nel loro viaggio non manchi una visita al castello di Cariseto, ampio-spaziante sulle Valli dell’Aveto-Trebbia; alla frazione Selva, trionfo del romanico rustico della zona; alla vecchia e alla nuova Chiesa di Selva. La nuova, quella costruita dal parroco don Andrea Varinotti (1921/1982), l’ultimo di una lunga serie di Parroci residenti tra la loro gente, divenuto per l’incredibile impresa “architetto”, muratore e manovale. Egli ha voluto scrivere sul pavimento del grazioso nartece, “dall’erbosa soglia”: “Entra buono ed esci migliore”. Che sia questa la soluzione a molti problemi che oggi ci affliggono?
Attilio Carboni
(Articolo tratto dal N° 31 del 13/09/2012 e N° 32 del 20/09/2012 del settimanale “La Trebbia”)
(Fotografia di Giacomo Turco)
Una integrazione all’articolo inviataci da Giacomo Turco:
Riporto la testimonianza resami l’anno scorso dal parroco di Cerignale, che è un uomo molto anziano e ricorda la chiesa quando era ancora praticabile.
Secondo lui, la chiesa non era intitolata a Santo Stefano Protomartire, ma più precisamente alla “Invenzione di Santo Stefano Protomartire”, dove per “invenzione” si deve intendere la parola latina Inventio, cioè “scoperta”. La chiesa era infatti dedicata alla “Scoperta delle reliquie di Santo Stefano”.
Nel corso del tempo, i parrocchiani avevano però dimenticato cosa significasse esattamente “Invenzione”. Non riuscendo a capire di quale invenzione si trattasse, la chiesa finì semplicemente per essere chiamata “di Santo Stefano”, tanto è vero che la dedicazione “abbreviata” è stata poi trasmessa alla chiesa nuova.
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