Negli anni precedenti il 1167 Federico Barbarossa aveva più volte tentato di piegare il potere spirituale della Chiesa di Roma e di unire nelle sue sole mani il diritto di essere imperatore e principe della Cristianità. Nell’estate del 1167 egli era riuscito a insediare sul soglio di San Pietro l’antipapa Pasquale III. L’operazione era culminata a Roma con la sua seconda incoronazione. Sembrava dunque sul punto di trionfare, con il vero papa Alessandro III, suo tenace oppositore, umiliato e profugo a Benevento. All’improvviso però un’epidemia – interpretata subito come presagio di sventura – si abbattè sul suo seguito. Si disse che il castigo divino fosse finalmente caduto sull’imperatore, nemico delle libertà comunali.
Era necessario ripiegare in patria abbandonando l’altro ambizioso progetto di contrastare i Normanni in Italia meridionale. Risale dunque la penisola, giunto però a Malnido, presso Villafranca in Lunigiana, viene avvertito che la via di Montebardone – la principale e più agevole direttrice per le comunicazioni fra il nord e il centro d’Italia, utilizzata da mercanti e pellegrini – risultava presidiata dalle truppe della Lega dei comuni lombardi, frattanto costituita a Pontida il 7 aprile 1167, a difesa dei diritti municipali. La situazione sembra precipitare quando Obizzo Malaspina corre in suo aiuto.
Obizzo nel 1164 aveva ricevuto dal Barbarossa il feudo di Cariseto in concessione assieme ad altri territori delle valli Trebbia, Staffora e Taro, «prò suo magnifico et preclaro servino…». L’imperatore svevo era inflessibile e duro con i nemici, così come era generoso e riconoscente con i suoi servitori. Il Malaspina era uno di questi ultimi e contava, con questa benevola concessione, di affermare un vero e proprio staterello in un territorio montano e difficile che andava dal margine della piana tortonese alla Lunigiana toscana. L’infeudazione era avvenuta tre anni prima che il Barbarossa si trovasse in grande affanno sulla via di Montebardone (oggi della Cisa), chiuso in una ‘sacca’, minacciato dalle truppe lombarde.
E fu proprio il riconoscente Malaspina, a quel punto, a trarlo in salvo. Gli propose seduta stante un cammino alternativo, su per i monti dell’Appennino e per le valli traverse del Taro, del Ceno, dell’Aveto, del Trebbia per riparare infine nella fidata Pavia aggirando le insidie nemiche. Ma lo avvertì pure che la via sarebbe stata malagevole, con pochi rifornimenti e nessun agio salvo il fatto di restare sempre in terre proprie, dentro il grande feudo di famiglia.
Il Barbarossa, avvezzo alle fatiche, vide di buon grado l’idea temendo tuttavia per la regina, Beatrice di Borgogna, meno abituata a così forti disagi. E il viaggio fu duro, durissimo. Lo stesso imperatore, colpito dallo stato selvaggio dei luoghi, chiese più volte al Malaspina di cosa vivesse la gente in simili posti ricevendo sempre la stessa risposta: «… togliendo agli altri, Sire». Alla fine – il 12 settembre 1167 -riuscì con i pochi soldati rimasti e con il resto della corte a riparare a Pavia, ma le traversie sopportate in quel viaggio rimasero scolpite nella sua mente. Anni dopo, nel 1185, inviando un monito ai Cremonesi addossò loro le cause, poiché essi avevano chiuso la via di Montebardone: «Noi fummo costretti di camminare per vie anguste e tortuose con grande pericolo della nostra persona, di un così grande esercito, di nostra moglie, dei nostri figli… per cui perdono a tutti, ma non a voi perfidi Cremonesi».
Riguardo al cammino seguito da quella sfinita comitiva, gli storici hanno avanzato supposizioni, ma si sa che in almeno due castelli l’imperatore fu ospitato: uno fu Oramala, sopra Varzi; l’altro, giustappunto, Cariseto.
(Brano tratto dal libro “Route 45: la Val Trebbia” di Maria Luigia Pagliani e Albano Marcarini – Edizioni Diabasis)
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