In Valtrebbia l’ombra d’Annibale

La giornata dei briganti, disertori, sbandati stupratori di femmine, comincia alle Capanne di Còsola, valico in capo al mondo a quota 1493, dopo una salita da bestie, col mulo meccanico surriscaldato, un birrino e una strana locanda dal bancone in Emilia, i tavoli in Piemonte e la terrazza in Lombardia. Un posto che a ottobre si riempie di pifferi e cornamuse, una specie di stati generali dei fiati appenninici. Comincia con lo sconforto di fronte alla complessità caucasica di un mondo dove è passato di tutto: cartaginesi, svevi, legioni romane, lanzichenecchi, leghe lombarde, partigiani russi e slavi, angloamericani, tedeschi della Wehrmacht e bande irregolari di ogni tipo. La discesa in Val Boreca, affluente della Trebbia, è una forra da imboscate, stretta, senza parapetto, dove il freno-motore tiene solo in prima, urla come la sega di un tagliaboschi. Nell’ aria strane presenze. Un’ auto arrogante di oggi non le sentirebbe. La nostra invece fiuta qualcosa, si inchioda come un fox terrier davanti a un cartello che indica il paese di «Zerba», e poi davanti a una targa, oltre il fiume, col nome di «Tàrtago». I nomi hanno sempre un segreto, e Albano, l’ impareggiabile navigatore che conosce ogni angolo del Paese, li svela. «Pare che dietro ci siano Djerba e Cartagine. Per via dei cartaginesi che si sarebbero nascosti qui, dopo la seconda guerra punica»
Hannibal.
Siamo davanti alla prima grande ombra appenninica. «Forse è fantasia – sorride il passeggero – ma che importa». Quello che importa è che in val Trebbia il 25 dicembre 213 avanti Cristo si consumò, in una tempesta di neve, la prima grande sconfitta di Roma. E importa che dopo 22 secoli, la valle rivendichi tuttora un favoloso lignaggio punico. Per gli indigeni è un modo di dire: siamo diversi da Roma dominante. Per noi, è il primo segno che stiamo entrando in un viaggio parallelo, popolato di trapassati. Re e anarchici, soldati e uomini-contro. Il cui ricordo diventa spesso mito fondativo per le comunità. Razza italiana? Sarà. La mappa dice altrimenti.
A Mandrogne, paese di rottamai sotto Alessandria, la gente ha la faccia scura e si dice discenda da pirati arabi in fuga dai genovesi. Idem per Sassalbo e Succiso, villaggi di legnaioli ai due lati del passo del Cerreto. A Barbagelata, sopra Chiavari, la gente è sul metro e ottanta per via di un manipolo di lanzichenecchi transitati dopo una razzìa. A Teruzzi, sopra Piacenza, hanno la faccia asiatica; e nella vicina Rabbini, ex zona ebraica, trovi nasi e barbe da Medio Oriente. Sopra Massa, nelle Apuane, c’ è un villaggio dove usano ancora l’ alto-tedesco. A Taverne, nell’ alto Piacentino, una caserma di dragoni ha elevato di 20 centimetri l’ altezza media dei locali. E a Bardi, sul crinale parmense, perfino i cavalli rivendicano ascendenza punica. Da perdersi.
Barbarossa
A Ponte Organasco, più a valle sulla Trebbia, sbuca un’ altra ombra, quella del Barbarossa. E’ una storiaccia del 1167 che di nuovo il mio bravo passeggero-cartografo conosce a memoria. L’ imperatore, di ritorno da Roma, si ritrova il passo della Cisa sbarrato dai Lumbard. Ripiega su Pontremoli e, per raggiungere la sua Pavia, deve imbarcarsi in un periplo infinito in orride valli laterali sotto la guida del margravio Obizzo Malaspina. Allibito dalla povertà dei luoghi, chiede al conte di cosa viva la gente, e quello risponde: «Che volete, in siffatti paesi che nulla producono, bisogna pur vivere di rapina».
«C’era il bandito Gurcio Tignoso da queste parti», ci avvertono in una locanda sul fiume. E poi il famigerato Bagnagatta, che assaliva anche gli imperiali e per questo fu messo alla forca con un piede in meno, amputatogli al momento della cattura. Il pericolo era ovunque, tanto che la stessa imperatrice, Beatrice di Borgogna, dovette cavalcare armata di spada. E quando a Ponte Organasco, la valle della Trebbia gli dischiuse la via della Padania, il barbuto imperatore era così furente che annunciò il perdono a tutti i ribelli del Nord, tranne a coloro che l’ avevano obbligato a una trasferta così orribile.
Non solo Annibale
«Lo vedi quel filare di gelsi?» mi chiede il rude amico Franco Sprega scodellandomi una mestolata di tortelli nella sua veranda ai bordi della pianura, frazione di San Protaso in quel di Fiorenzuola. «Lo chiamano Camp dei Rus. E’ per via dei cosacchi. Fecero tali disastri tra i contadini dopo aver sconfitto i napoleonici nel 1799, che la gente cominciò a farli secchi appena si ubriacavano. Li seppellivano con tutte le armi, per cancellare le prove. E molti li abbiamo trovati lì». Non c’ è solo Annibale con gli elefanti in zona Trebbia. Franco lo sa bene, che della storia di quelle valli sa tutto e di più. Albano, il compagno di viaggio, s’ è appena imbarcato su un autobus per Milano, e San Protaso è il luogo perfetto per bivaccare e fare il pieno di storie prima di tornar sui monti. L’ auto tira il fiato sotto un gelso, è l’ ora del vino freddo, un Trebbianino bianco con le bollicine. Il Camp dei Rus, dunque. Nessuno, racconta Sprega, ricordava più il senso di quel nome. Poi negli anni Cinquanta vennero gli aratri a motore, la terra fu rivoltata nel profondo, emersero sciabole e bottoni con strane scritte cirilliche, e solo allora la memoria riprese corpo. Apriamo un vecchio libro pieno di donne violentate, stragi di maialini, dita mozzate con tutto l’ anello, chiese depredate di aurei candelabri. Erano sconvolti i parroci del «diabolico furore» dei «moscoviti ladri per natura», giunti a «bottinare in qualsiasi luogo», «dilapidanti tartareis moscovia milites», russi dal «barbarico ululato». Che némesi: quei «satrapi» del cristianissimo re delle Russie erano assai peggio dei francesi mangiapreti. Attorno a noi, nei fumi del vino, è tutto uno strepito di archibugiate, urla, comandi militari, scalpitar di zoccoli. Poi, nient’ altro che i «laceri avanzi del furor moscovita».
Briganti
Ma è lì, verso le 23, che sbucano a sorpresa dalla steppa padana gli ultimi sbandati di questo giorno interminabile di battaglie, agguati, imboscamenti e imperatori in fuga. Sono gli ultimi barbari resistenti della piana ipermercata, ombre partigiane erranti tra i treni della notte e i canali. Li guida Vinicio Capossela, il cantautore dalla barba rabbinica, che mi ha beccato ai bordi del suo feudo emiliano. Dietro, gli amici di scorribanda. «Benzina», alchimista dei motori. «Pepe», suonatore di bandoneon. Il «Negro Dum-dum», dal volto truculento, abitatore di una torre piezometrica. E Luca, inventore di un locale dove i treni della Milano-Bologna fanno tremare il palcoscenico e pare investano gli spettatori. Mi portano via, i briganti, tra porcilaie e zanzare, nell’ odore di erba umida e i grilli, fino a un gran fuoco acceso ai margini di un bosco con le ultime lucciole sopravvissute allo sterminio. E’ un convegno segreto, in località «Chiavicone», repubblica autonoma della Val d’ Enza, ultima trincea indipendente nel totalitarismo padano. Si finisce alle quattro, con cotolette di maiale celtico e bottiglie di rosso Gutturnio – lo stesso che Annibale avrebbe dato ai suoi per scaldarli prima della battaglia – con Vinicio che si fa calare in un pozzo assieme a una fisarmonica e attacca, dal profondo, uno straziante rebetico, roba greca da alcolisti disperati ultimo stadio. Rebetico, dal turco «Rebet»: soldato allo sbando, anarchico solitario e imboscato. Il conto torna fino alla fine. Fino al risveglio antelucano della via Emilia, quando le ombre turrite degli elefanti cartaginesi si dileguano, spaventate dall’ urlo degli autoarticolati, e la folle energia del Grande Nord ricomincia a divorare se stessa. E’ questa l’ ora della fuga silenziosa verso le montagne. In fretta sulla mia strada, prima che la notte finisca e il sogno si perda.

Paolo Rumiz

(Articolo tratto da La Repubblica del 01/08/2006)

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