– In che posso ubbidirla? – disse don Rodrigo ecc. ecc. Ma arrivata a quel punto non potei più proseguire. Erano circa le 11 del mattino del 23 settembre 1953 e stavo facendo il riassunto scritto di un capitolo de “I promessi sposi”. La Preside della mia scuola desiderava che approfondissimo la conoscenza del Manzoni e pertanto durante l’estate dovevamo riassumere parecchi capitoli per iscritto. Incominciava ad infuriare un temporale ed il cielo si era talmente oscurato che sembrava che la notte fosse venuta in anticipo.
Non vedevo più né le righe del quaderno, né le pagine del libro. L’erogazione dell’ energia elettrica era stata sospesa. Dovetti accendere una candela. Pioveva a dirotto e le saette sempre più fitte squarciavano ogni tanto quelle tenebre diurne.
Improvvisamente mi ricordai che i pulcini erano fuori in una gabbia e l’acqua, che scendeva a torrente lungo la strada, avrebbe potuto travolgerli. Mi precipitai con una cesta e una copertina per prelevarli e portarli al sicuro.
L’acqua mi arrivava quasi alle ginocchia e mi entrava negli stivali; la pioggia cadeva molto fitta e le gocce erano così grosse che la visibilità era ridottissima.
Quella fìtta cortina di pioggia che cadeva con una straordinaria violenza impediva totalmente di vedere la campagna intorno. Il temporale scatenò la sua furia devastatrice per parecchi minuti, non ricordo quanti, ma ricordo che mi sembrarono un’eternità.
Quando l’aria cominciò un po’ a schiarirsi ci si presentò uno spettacolo così desolante che ci lasciò tutti ammutoliti. Il nostro ambiente aveva cambiato fìsionomia: avevamo l’impressione di abitare in un altro luogo. Sparito quell’albero, scivolato via quel campo, inghiottita la strada dal fosso, mio padre che esclamava in dialetto con un tono molto accorato: – Mia là i mae sciti! -(Guarda là i miei terreni!) e soffriva come se la violenza del temporale gli avesse strappato una parte del corpo e si sentisse improvvisamente mutilato.
Cessato il nubifragio la gente cominciò ad uscire dalle case in mezzo al fango e si spinse fuori dal villaggio ad esplorare, per rendersi conto di tutto.
La circolazione era difficoltosa: lungo le strade si erano formate delle voragini. Gli uomini validi andarono in cerca di badili, zappe e picconi e di pezzi di legno per poter rabberciare alla meglio la strada in modo da poter passare. Così avanzando gradualmente potemmo via via fare sempre nuove scoperte, ma ancora non ci rendevamo conto della gravita e dell’estensione del fenomeno.
Pensavamo che i danni fossero circoscritti alla nostra zona e non immaginavamo che ci fosse stata una catastrofe di così vasta portata. Il Trebbia ingrossato dalle acqua limacciose che avevano trasportato la terra di numerose frane sembrava impazzito. Aveva trascinato nei suoi vortici alberi secolari come se fossero stati dei fuscelli. Un contadino vide passare un mulo trascinato dalla corrente e poi si seppe che era stato colto in viaggio dal temporale, mentre stava trasportando alcuni bidoni di latte.
Un uomo e una donna che lo stavano conducendo a valle trovarono rifugio con lui in una capanna di paglia, ma una frana si staccò dal monte e la capanna con i tre finì nei vortici del fiume, lungo la Statale 45, prima di Torriglia, esiste una lapide che ricorda quel fatto.
Dappertutto si vedeva gente indaffarata a buttare via il fango dalle case, a recuperare quei pochi oggetti che non si erano rovinati stando a mollo. Il paesaggio aveva assunto un aspetto quasi lunare: ovunque la terra mostrava squarci e ferite profonde.
Da quella volta, quando scoppia qualche temporale un po’ violento e sento tonfare la pioggia sul tetto e sulla strada, ho sempre il timore che si verifichi un nubifragio come quello. La terrificante immagine non si cancellerà mai più dalla mia mente.
Maria Rosa Barbieri (da Montebruno)
(Questo articolo è stato tratto dal N° 42 del 30/11/2000 del settimanale “La Trebbia”)
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